lunedì 19 maggio 2008

• Il mondo ha fame. L'ONU tace.

da LA STAMPA - lunedì 19 maggio 2008


di MIKHAIL GORBACIOV



La crisi mondiale del cibo sembra aver colto i leader politici, ma anche gli esperti, alla sprovvista. Inizialmente definita «tsunami silenzioso», ora non è più silenziosa. In molti Paesi, compresi 


alcuni cruciali per la stabilità regionale e globale, ci sono già state sommosse per il pane. Alcune delle cause di questa crisi sono evidenti: crescenti consumi di cibo nella Cina e nell’India che vivono uno sviluppo tumultuoso; accresciuta domanda di biocombustibili come l’etanolo, che deriva dal granoturco; cambiamenti delle condizioni atmosferiche causate dal riscaldamento globale e dalla scarsità d’acqua. Il primo punto è un trend inevitabile, e dobbiamo rallegrarci che centinaia di milioni di persone si stiano tirando fuori dalla povertà e possano permettersi un’alimentazione corretta. Il nostro pianeta è perfettamente in grado di nutrirli: secondo gli esperti, con le attuale tecnologie agricole, la produzione basterebbe per otto miliardi di bocche. Le principali ragioni dell’improvvisa crisi sono tutte umane e sono il prodotto dell’azione - o meglio: dell’inazione - dei politici. 


Non erano forse stati messi in guardia sul riscaldamento globale e sulla necessità di contromisure? La produzione di etanolo era stata presentata come un modo ambientalmente vantaggioso per ridurre la dipendenza dal petrolio. Ma non si erano presi in considerazione tutti gli aspetti, e il risultato è stato paradossale: in molti Paesi i contribuenti sovvenzionano la trasformazione dei cereali in etanolo, e così riducono le risorse di cibo. Il che crea un circolo vizioso, che ancora una volta dimostra come non esistano soluzioni semplici né parole magiche. 

Nelle scorse settimane il direttore generale della Fao, Jacques Diouf, ha giustamente sottolineato come la crisi sia maturata nel corso di decenni e sia il risultato di «vent'anni di politiche sbagliate». Mentre gli aiuti all'agricoltura nei Paesi in via di sviluppo sono stati dimezzati tra il 1990 e il 2000, ai suoi contadini il mondo industrializzato ha continuato a erogare generosi sussidi. Come a dire: lasciamo che «quelli» affoghino o nuotino sulle onde del libero mercato, mentre «i nostri» verranno soccorsi. Ora che la crisi del cibo è anche tra noi - e con ogni verosimiglianza ci resterà - sono due le cose da fare. La prima è prendere misure di emergenza. La seconda è capire la lezione e utilizzarla per un’azione a lungo termine. Con l’evolvere della situazione, le nazioni seguiranno il principio dell’«ognuno per sè» o mostreranno finalmente la forza e la capacità di lavorare insieme e agire in modo efficace? La risposta non è ancora chiara. Alcuni Paesi produttori di cibo hanno già imposto limiti alle esportazioni per tenere bassi i prezzi ed evitare la rabbia popolare. Questa è una reazione comprensibile, ma a lungo termine non funzionerà. Occorrono soluzioni a livello internazionale. Il segretario generale dell’Onu ha convocato di recente un incontro dei vertici di 27 organizzazioni internazionali per coordinare la risposta della comunità mondiale. 


E’ stata creata una forza speciale d’intervento, il che è un ottimo primo passo. I Paesi ricchi hanno dato mezzo miliardo di dollari per aiuti alimentari urgenti - una somma non enorme, ma pur sempre un buon inizio. L’agenda del G8 che si terrà in Giappone all’inizio di luglio è stata modificata: il primo ministro giapponese ha proposto di discutere «la minaccia della fame e della malnutrizione» nel mondo». Anche la società globale civile si è data da fare, e molte ong hanno offerto il loro aiuto. Tutto questo è buono e giusto, ma io continuo a chiedermi che cosa faccia il Consiglio di Sicurezza, che, secondo la Carta dell’Onu, «porta la responsabilità 

primaria di mantenere la pace e la sicurezza internazionale». Che dalle finestre del Palazzo di Vetro non si veda la minaccia alla pace e alla sicurezza? «Sono sorpreso - ha detto Diouf - di non essere stato convocato dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu», per riferire con urgenza sulla situazione. I diplomatici delle Nazioni Unite sembrano troppo abituati a lavorare come una squadradi vigili del fuoco che risponde alle crisi quando già sono degenerate in ostilità. 


Ovviamente quello è un lavoro necessario, ma sviluppare misure preventive è ancor più importante. Com’è possibile che, mentre i parlamenti nazionali dedicano sessioni particolari ai problemi urgenti, mobilitando tutti gli esperti disponibili e trovando gradualmente le soluzioni, lo stesso non accada a livello internazionale? Il Consiglio di Sicurezza non è ancora diventato un centro decisionale che potrebbe far convergere le menti dei leader mondiali sui problemi reali - le vere priorità, non quelle distorte che vediamo oggi sul tappeto. E’ imperativo cominciare ora, senza aspettare la riforma dell’Onu, che ovviamente è necessaria. Se è vero che l’esclusione di Paesi come l’India, il Brasile, il Giappone, la Germania e il Sudafrica dal gruppo dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza è sbagliata e va corretta e che la sua sfera d’influenza dovrebbe includere la sicurezza economica e ambientale, perché non cambiare l’agenda e cominciare a coinvolgere, subito, questi Paesi nella discussione? Il problema è l’inerzia. Ma la crisi del cibo ci ha ricordato una volta di più che l’inerzia uccide.

Nessun commento: