sabato 27 settembre 2008

• Finanziamenti all'editoria, appiattimento del Parlamento, semidemocrazia.


Quando mi sono soffermato su "Europa" sulla risposta di Federico Orlando ad un suo interlocutore, su quanto sta accadendo nel campo del finanziamento dei media quantitativamente meno diffusi, la preoccupazione per la mia e la vostra libertà di espressione è aumentata ancora (se possibile). L'editoriale "così si soffocano le idee" ed il pezzo di Raffaella Cascioli "Ecco le regole ammazzagiornali" erano di per sé già assai chiari. Orlando informa che il sottosegretario Bonaiuti «si sottoporrà a un'audizione» nella settimana dal 29 settembre al 4 ottobre per «colloquiare sulla legge di riforma dell'editoria e sui regolamenti, che nel frattempo la pregiudicano con decisioni che precedono la legge e che, come nel caso dei fondi ai giornali di partito e alle cooperative di giornalisti, creano l'allarme». Prosegue Orlando. «Il problema è specifico, ma s'inquadra in una tendenza metodica di questo governo culturalmente fascista, denunciata da Liberal mercoledì [24 sett.] e ieri [25 sett.] dal Messaggero: e cioè la tendenza a togliere al parlamento il potere di fare leggi e sostituirlo col potere del governo di legiferare con decreti.» Con riferimento al «regolamento che rende retroattivi i futuri tagli all'editoria decisi dalla Finanziaria (decreto n.112 dello scorso giugno), il rischio è non solo la scomparsa delle briciole per i piccoli giornali di partito (la torta, come saprà, se la pappano i giornaloni quotati in borsa), ma che la stessa discrezionalità colpisca l'intera editoria: annullandone la multiformità e la molteplicità di voci, scuole, orientamenti, si tratti di editoria letteraria o storica o filosofica o religiosa o scientifica o sociologica, eccetera.» Commenta Orlando: rispetto a Berlusconi & c. Mussolini aveva fatto un errore: aveva «soppresso la Camera invece di ridurla a encefalogramma piatto, a parco buoi.» «Con molta soddisfazione dei buoi, che più tacciono più hanno speranza di essere ricandidati

la prossima volta, per il prossimo stipendio.». Aggiunge: «In Italia, dopo il fascismo, una destra al governo non può essere che destra di regime, e come regime si comporta: col manganello o con le furbate. Guardi come si stanno allineando i grandi giornali, che ben sanno di non perdere niente degli aiuti che oggi ricevono dal contribuente (spese postali, aperture di crediti, carta, ecc.).» Nessuna persona di buon senso può dubitare che, per rafforzare il pluralismo delle voci nell'informazione, sia urgente un risistemazione dell'editoria in modo da ridurre i margini a possibili truffe (non solo quelle di pseudopartiti e relativi pseudogiornali). Quanto accade allarma perché fa temere di arrivare alla risistemazione dell'editoria «con lo spirito del cappio che emerge in questi giorni contro i giornali dei partiti veri» «Andremmo alla più illiberale delle controriforme. Dopo quella d'infausta memoria.» 
"Parco buoi", definizione 'forte', forse un po' forzata. Ma l'accredita ancor più quanto denunciato, anche da Famiglia Cristiana n. 39 (domani 28 sett. in edicola e nelle parrocchie) lumeggiando un quadro sul quale abbiamo il dovere di riflettere come cittadini, ed anche alla svelta. Scrive Famiglia Cristiana nell'editoriale titolato: "Declino e metamorfosi della nostra democrazia": «L'interrogativo se sia in atto un processo degenerativo della democrazia anche in Italia è serio. I regimi formalmente democratici, ma parzialmente svuotati della loro capacità rappresentativa, sono ormai una semi-democrazia. La settimana scorsa il capo del Governo ha varato due operazioni: con la prima ha dato il via alla costituzione di un vero partito unico del Centrodestra; con la seconda ha comunicato agli italiani che, per le elezioni europee della prossima primavera, sarà servita la "porcata numero due" (come la chiamò il suo creatore, il leghista Calderoli), ovvero una copia delle disposizioni più antidemocratiche della legge elettorale con cui abbiamo votato nelle ultime elezioni politiche. Il Cavaliere, infatti, ha annunciato che neanche per il Parlamento europeo potremo sceglierci i rappresentanti con lo strumento delle preferenze, e che la soglia per entrare nell'Ue salirà al 5 per cento.» Non solo ma in questi giorni dall'area vaticana arriva un'accusa assai pesante: l'Italia non rispetta i diritti umani di migranti e richiedenti asilo, e L'Osservatore Romano manda segnali con mons. Nozza, direttore della Caritas, che accusa il governo italiano di «alimentare un clima di paura e di intolleranza » a danno degli immigrati. 

martedì 23 settembre 2008

• Un popolo zelante verso i superiori, sprezzante nei confronti dei più deboli.

Paure ed insicurezze. Non si risolvono i problemi organizzativi e gestionali della Polizia si Stato o delle altre forze normalmente usate con funzioni di polizia e di tutela dell'ordine ad ogni livello. Si invocano i militari: fa più spot ed impegno. Ma si provoca una deriva assai pericolosa. Apparentemente siamo in presenza di un atteggiamento muscolare che appaga vista ed insicurezze, personali o di gruppo. Ma «quest'indirizzo delle maniere forti si propaga per cerchi concentrici, come l'onda sollevata da un sasso sulla cresta del lago. Ha origine in un atto del governo, viene poi subito emulato da tutti gli altri apparati dello Stato. Dalla polizia stradale, che ha iniziato a prendere sul serio le norme contro l'alcolismo. Dalla magistratura, che senza l'altolà di Alfano avrebbe processato la Guzzanti per aver spedito all'inferno il Santo Padre. Da 8 mila sindaci travestiti da sceriffi, che in nome del decoro urbano proibiscono l'accattonaggio (Assisi), il tramezzino in pubblico (Firenze), le massaggiatrici in spiaggia (Forte dei Marmi), la sosta in panchina per più di due persone (Novara), le effusioni in auto (Eboli), le bevande in vetro nelle ore serali (Genova). Ma il giro di vite risponde a una domanda ormai corale da parte di chiunque sia investito di qualche responsabilità sulla nostra vita collettiva: è un ritornello, un tic. L'ultima proposta viene dal presidente della Lega calcio Matarrese, che reclama celle negli stadi, anche perché le patrie galere hanno esaurito i posti a sedere.» Il tarlo dell'insicurezza ci perseguita: impoverimento della classe media e affamamento dei ceti popolari. «Incertezza sul futuro si traduce in un bisogno d'ordine, scarica pulsioni intolleranti, imputa al maghrebino che raccoglie pomodori tutta la colpa se il lavoro è poco.»
Credo anch'io che siamo in una fase di avvio di una mutazione antropologica. La complessità nella quale stiamo vivendo, ormai da anni. sta designando a passo veloce una nuova tipologia di 'uomo', che genera il nuovo clima. «Riecheggia a questo riguardo la lezione d'uno psicologo nazista, Jaensch, poi rilanciata da Fromm e Adorno: ogni governo autoritario ha bisogno di una «personalità autoritaria», ossia d'un popolo zelante verso i superiori, sprezzante nei confronti dei più deboli. Non è forse questa la chiave di lettura del razzismo che soffia come un mantice sulla società italiana? E non sgorga da qui la doccia di gesso che ha spento le vampate d'odio sulla Casta? Improvvisamente la nostra società si è risvegliata docile, addomesticata. Alla cultura del conflitto, il sale dei sistemi liberali, abbiamo sostituito tutt'a un tratto il culto del potere, delle gerarchie, dell'ordine.» La destra, accompagnata dal berlusconismo sta intercettando questa atmosfera, gli dà uno sfogo, «sia pure riesumando fossili come le case chiuse o la verga del maestro. L'obbedienza non è più una virtù, diceva nel 1965 don Milani. Infatti: quarant'anni dopo, si è tramutata in vizio.»

per nota - I virgolettati indicano estrapolazioni da un pezzo di Michele Ainis su "La Stampa" del 23 settembre c.a.

domenica 21 settembre 2008

• « Ué pirla» !

Anche il nostro Paese deve fare i conti coi fenomeni della immigrazione recente e confrontarsi culturalmente coi diversi - comunque si chiamino. Eppure anche noi siamo un popolo di immigrati, da secoli. Gli ‘originari’, ancora riconoscibili, sono veramente pochi. Si strilla per i Rom (che da sempre sono fra noi!), per i romeni e gli originari dell’ex europa orientale, per i ‘neri’ e i magrebini. Hanno disturbato il nostro quieto vivere e la nostra voglia di lasciare tutto hinc et nunc. Pronti però ad accogliere e far nostre le immagini e le icone che i vari canali di comunicazione ci sottopongono da ogni latitudine della terra; troppo spesso senza comprenderne qualità ed origini, con risultati disastrosi. In queste ore i mass media ci propongono i ‘duri’ cortei di Castel Volturno e di Milano.

Scrive Cesare Martinetti, su LA STAMPA, della ‘generazione Balotelli’: «Attenzione a quei ragazzi con la faccia nera che dicono «oh madonna» e masticano dei «ué pirla» come se fosse chewing-gum. Vengono dalle periferie di Baggio o Cusano. Ma anche da quartieri residenziali di Monza o della Brianza. Sono arrivati nel centro di Milano a urlare «bianchi vi odiamo» con la ruvida parlata lombarda. Sono ragazzi come i nostri, parlano come i nostri, ascoltano la stessa musica nell’iPod, vestono le stesse t-shirt «Armani jeans», mangiano, bevono, sognano le stesse cose dei nostri. Esultano per i gol di Balotelli, ma anche per quelli di Del Piero, sono i compagni di scuola dei nostri. Sono dei ragazzi italiani, sono quelli che chiamiamo con un ossimoro gli «immigrati di seconda generazione», figli di veri immigrati o anche ragazzi adottati che ieri hanno portato la loro faccia nera dalle parti del Duomo per far pesare quell’essere «neri», anzi «100 per cento neri», come diceva la maglietta di uno di loro, per sottolineare la differenza con i ‘bianchi’.» Quei ragazzi, in Lombardia ma anche in Campania, manifestavano la loro rabbia e la loro indignazione spinti da due fatti diversi: la bastonatura a morte di uno di loro a Milano, la strage camorristica di Castel Volturno. Gli uni, con passaporto, nascita ed educazione italiana come noi. Gli altri come immigrati di prima generazione (qualcuno anche clandestino) sfruttati e taglieggiati che in nome della sopravvivenza cercano quotidianamente di soddisfare nostri egoismi e vizi. Gli uni e gli altri «volevano parlare di loro stessi e raccontavano di questa Italia forse non razzista, ma certamente iniqua, febbrile, sovreccitata, arrogante, criminale che vuol fare la guerra ai clandestini e scopre invece un sabato pomeriggio di settembre nel centro di Milano che una nuova contraddizione le sta già scoppiando in pancia: gli italiani neri che come gli americani neri negli Anni Sessanta sfilano per chiedere «uguali diritti». Con l’accento lombardo.»

La questione razziale si è ora, anche formalmente, aperta in Italia. Da tempo covava nel quotidiano. Non ci sono da invocare né buonismi né ‘difensivismi di gente impaurita da ciò che non conosce’. Ma solo recuperare la capacità di vincere le nostre paure con la conoscenza reciproca e batterci perché fondamentalismi di ogni genere - degli uni e degli altri - non travolgano la nostra società. La parola “insieme” non può essere solo uno slogan o una sciroppata propagandistica. Tra noi da sempre ci sono persone che accettano le regole della società e della convivenza fra diversi (secondo le tre regole da tutti accettate: libertà, uguaglianza, solidarietà) ed altri che le rifiutano in nome di superiorità improponibili o di prepotenze inaccettabili. Questi ultimi non devono prevalere. Mai.

sabato 20 settembre 2008

• Crisi Alitalia o crisi di sistema?

Come spesso accade quando si affrontano nodi-chiave di un sistema la vicenda Alitalia si manifesta come un sistema di concause che ne rendono ardua - se non impossibile - la soluzione.
C’è chi, come Marco Conti su ‘Europa’ ritrova una causa strutturale. «L’origine dei mali passati e presenti di Alitalia è riassumibile in uno slogan sciagurato: «Il paese non può non avere una compagnia di bandiera, e quindi Alitalia non può fallire» (molte altre compagnie di bandiera sono fallite, o sono in vendita senza drammi di sorta. Anche la vendita a AirFrance-Klm era in questa logica, e non avrebbe avuto problemi). E quel messaggio viene immediatamente e correttamente interpretato da management, sindacati, fornitori, enti locali eccetera come: «Chiedete, e vi sarà dato». Liquidazioni agli amministratori, contratti d’oro ai dipendenti, due (o tre) hub antieconomici, forniture costosissime. Alla fine i contribuenti pagano 5 miliardi, e il piano del Cai ne prevedeva altri tre. Ma perseverare diabolicum, e i nodi sono venuti al pettine; le aspettative dei vari sindacati, abituati a ripiani pubblici continui, sono risultate incomprimibili. Appare evidente che il governo “liberale” di centrodestra, sull’onda del recente Tremonti- pensiero (colbertiano e “antimercatista”), ha scordato che l’Europa è stata costruita principalmente per liberare i cittadini dal potere e dall’inefficienza dei monopoli: il concetto stesso di “campione nazionale” contraddice il progetto europeo.».C’è chi, come Massimiliano Lenzi su “Conquiste del lavoro”, parla di battaglia persa sulla strada del rinnovamento unitario del ruolo del sindacato dei lavoratori nel sistema ‘Italia’ (con riferimento al ritardo riformista della Cgil ed al vetero-sindacalismo ancora presente in parte dei quadri dl sindacato e della sinistra partitica. Il riferimento in particolare è al personaggio Massimo D’Alema. «Dire che per gli accordi serve il consenso dei lavoratori e non dei sindacati, infatti, da una parte è la scoperta dell'ovvio e dall'altra, se portiamo il concetto alle sue estreme conseguenze logiche, la negazione del ruolo di mediazione del sindacato nelle grandi vertenze aziendali e contrattuali. La verità, guardando dentro le ultime ore della vicenda Cai e del suo dirottamento "politico", è che il riformismo sindacale, espresso nella vicenda da Cisl, Uil ed Ugl, quello che fa i conti col realismo della politica e dell'economia, ma sempre con l'occhio rivolto ai lavoratori che rappresenta, ha subito ancora un duro colpo.» «Poteva essere un laboratorio, questa vicenda Alitalia, per rinnovare la vitalità sindacale, il riformismo (c'era l'interessante proposta Cai della partecipazione dei lavoratori agli utili netti nella misura del 7%) ed invece ne è uscita la solita storia di veti incrociati.»
C’è chi, come Lucia Annunziata su "La Stampa", parla di scommessa di Epifani in funzione della leadership del Partito Democratico. «Sono stati scomodati i controllori di volo di Reagan e i minatori della Thatcher per ricordare la gravità dello scontro sull’Alitalia. Non molto è stato detto invece di una partita che rende ancora più rilevante, se possibile, il braccio di ferro intorno alla compagnia di bandiera: il destino e la leadership del Partito democratico. Il Pd non è apparso un soggettomolto attivo nella contesa, ma è possibile leggere nelle decisioni di Epifani il peso del fatto che questo partito è tornato (volenti o nolenti i suoi leader) a dipendere dalla Cgil. Una dipendenza che è lo specchio di un disegno di sfida al Pd lanciato proprio intorno all’Alitalia dall’attuale premier in campagna elettorale, e riproposto nel progetto di salvataggio governativo. In questo senso, se invece di duellare sulle ragioni del mercato accettiamo di prendere atto della totale politicità dello scontro, risultano più chiare anche le scelte di Epifani. A nessun commentatore è sfuggita, ad esempio, la contemporanea (e difficile) discussione in corso in Confindustria per il rinnovo del modello contrattuale.»
È francamente azzardata e forzata la lettura della Annunziata e non esalta - come ha l’aria di voler fare - la propria capacità di capire ed intuire, deduttivamente, quanto si rileva nella vicenda. Almeno me lo auguro per il rispetto che ho per Epifani e per ciò che rappresenta la Cgil. Finora - pur tra proprie frequenti oscillazioni ed incertezze - insieme a Cisl ed Uil ha salvato il Paese da spinte - più o meno evidenti - di tipo asolidale ed antidemocratico.
La presa d’atto che la vicenda negoziale di quest’ultimo periodo di Alitalia è stata condotta con sicuro dilettantismo e grande irresponsabilità è un dato di cui - purtroppo - bisogna prendere atto. Lo dice l’ira manifesta di Berlusconi. Lo dicono esplicitamente le parole di Veltroni. Lo conferma il ministro/ombra, Enrico Letta, su “Europa”: «Hanno perso tutti. Per l’Italia è un altro passo in giù. Non c’è niente da applaudire e niente di che rallegrarsi. Ora c’è da tenere solo i nervi saldi, capire quali sono le responsabilità e gli errori e mettere in campo immediatamente scelte che parlino al futuro.
Le responsabilità di Berlusconi sono evidenti. Stride il contrasto tra le sue accuse, oggi, ai sindacati per non aver firmato e il suo sostegno, cinque mesi fa, a quegli stessi sindacati perché non firmassero l’ accordo con Air France-Klm. Quel possibile accordo emerge oggi come la soluzione ideale rispetto ai pasticci presenti e alle buie prospettive future.»
Le conseguenze le pagano tutti gli italiani - se non arriva qualche salvagente all’ultimo tuffo!
È stato posto in gioco il ruolo del sindacato nella società, quindi del pluralismo societario sul quale si basa la nostra democrazia partecipata; la struttura delle relazioni industriali; la capacità e possibilità dello Stato di mantenere l’equilibrio corretto dei poteri socio-economici; il nostro modo di agire all’interno dell’Europa-stato. Alla resa finale dei conti (anche se ancora da definire con chiarezza) sembra accertato un ‘buco’ da circa 10 miliardi nel bilancio dello Stato.
Chi ha fatto fallire la soluzione proposta, a suo tempo, dal governo Prodi è corresponsabile di questo quadro.

sabato 13 settembre 2008

• Populismo. Il Paese ha perso l'orientamento?

Seguire quanto accade in questi giorni nel nostro Paese è ancor più problematico di sempre. Non condivido del tutto la riflessione che ci propone Gian Enrico Rusconi; o, per lo meno, non arrivo all'accentuato pessimismo che egli esprime. Ho sempre avuto fiducia nella capacità di reazione mia e di coloro che ho conosciuto lungo il mio cammino. Quindi la speranza non muore.

Tuttavia non posso non osservare che, non solo a prima vista, i valori della attuale 'destra' italiana non sono identificabili col motto: Dio, Patria, Famiglia - se mai lo sono stati veramente. Uno slogan 'vecchio' altrettanto quanto lo sono i luoghi comuni spesso ricordati ed evidenziati dai mass media. A quanto vedo e sento, oggi, si sta da una parte, nella gran parte dei casi, perché si teme o meno il 'diverso' - soprattutto pensando alla immagine che vorremmo proiettare noi stessi o come micro-gruppo; perché si spera di soddisfare questo o quel piccolo desiderio (immediato e ravvicinato; grande o piccolo che sia) in cerca del suo appagamento. Si sta da una parte, piuttosto che da un'altra, per rispetto di vecchie battaglie, trincee e medaglie oppure di antiche indifferenze. Non si sta da nessuna parte perché si è travolti dai problemi della sopravvivenza quotidiana e di quella di chi ci vive immediatamente vicino oppure perché soffocati dalle dietrologie che ogni giorno vengono ammannite attraverso mass media o le immagini televisive. Le attuali ideologie di mercato e consumo hanno annebbiato (mediamente) valori maturati in duemila anni di storia durante i quali si è vissuto il messaggio evangelico per come la 'cultura' del momento riusciva a filtrarlo.

L'articolo di Rusconi vale la pena, comunque, di una ulteriore e meno immediata riflessione.

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LA STAMPA – 13/9/2008

Populismo e il passato che ritorna

di GIAN ENRICO RUSCONI

Il Paese ha perso l’orientamento. Nessuno lo rappresenta più davvero. Testarde fazioni politiche contrapposte tengono in ostaggio la politica.

Il ceto degli intellettuali si è dissolto in singoli individui o in piccoli gruppi. Non solo ha perso valore la qualifica di destra o sinistra, non ci sono più conservatori e progressisti, ma si è smarrito il senso di ciò che tiene insieme questo Paese. Nessuno sa più dirne le ragioni, in modo convincente per tutti, pur facendo attenzione alle legittime differenze.

La storia nazionale è impunemente sequestrata da dilettanti e mistificatori. Ormai si può dire tutto su tutto - dall’8 settembre al terrorismo delle Brigate Rosse. Ciò che importa è il rumore mediatico che copre ogni altra voce e può contare sulla spossatezza degli studiosi seri. La serietà è diventata noiosissima in questo Paese: è intollerabile e incompatibile con il talk show permanente.

C’è in giro una pesante aria decisionista. A parole almeno. Comincia dai vertici dei ministri, indaffarati a fare proclami, cui non sappiamo che cosa davvero seguirà. Colpisce l’irresponsabilità e il dilettantismo di ministri che parlano (pensando in realtà soltanto ai media) come se tutto dipendesse dalle loro parole.

Come se la scuola - per fare un esempio - non fosse una grande complessa istituzione tenuta in piedi da migliaia di professionisti che hanno una loro competenza ed esperienza, di cui tener conto. No. Sono trattati come zelanti esecutori di decisioni calate dall’alto.

Ma da dove è spuntata fuori questa classe ministeriale? Da quale cultura? Dalla destra storica liberale? Dal fascismo riciclato democraticamente? No, per carità - si obietta subito -, non incominciamo con le genealogie ideologiche. Ciò che conta è «fare ordine» contro il «disordine della sinistra» - come dice il Cavaliere.

Mettere ordine, ripulire, punire, comandare. Se è il caso, mettere in galera clandestini, teppisti di stadio, prostitute di strada. Come se fossero la stessa cosa.

Naturalmente una società ordinata e sicura è un valore collettivo. E non finiremo mai di rimproverare la sinistra per essersi fatta scippare per malinteso «buonismo» questo valore. Per questo motivo non solo ha perso le ultime elezioni, ma adesso ha perso anche la testa. Infatti non sa più come reagire. A ogni iniziativa «d’ordine» ministeriale o governativa, balbetta e si divide.

Ma quali sono i valori della nuova destra populista che pretende di essere innanzitutto pragmatica, anti-ideologica? A prima vista sono i valori tradizionali di «Dio, patria e famiglia». Naturalmente al posto di Dio oggi si preferisce parlare di «radici cristiane»; l’idea di patria richiede qualche aggiustamento critico; soltanto la famiglia sembra mantenere le vecchie connotazioni. Ma è una pura finzione, se guardiamo ai comportamenti reali e non alle dichiarazioni fatte «per compiacere la Chiesa» (parole di Berlusconi).

In realtà la vera chiave della cultura politica di oggi è nel termine di «populismo» che va inteso non in modo generico, ma appropriato. Il populismo democratico ha quattro ingredienti: un popolo-elettore che tende a esprimersi in uno stile tendenzialmente plebiscitario con un rapporto di finta immediatezza con il leader; la dominanza di una leadership personale, gratificata di qualità «carismatiche»; un sistema partitico semplificato con un ricambio di élite politiche che è di supporto immediato al leader; il ruolo decisivo e insostituibile dei media allineati. Sottoprodotti di questa situazione sono la iperpersonalizzazione della politica e la sua spettacolarizzazione.

Gli elettori scelgono o si orientano al leader con aspettative di tipo decisionistico, per l’insofferenza verso le eccessive mediazioni parlamentari e le corrispondenti differenziazioni partitiche.

Da qui l’attivismo cui assistiamo quotidianamente. E le misure populistiche fatte appunto per soddisfare un immediato desiderio di ordine: contro la violenza di stadio come contro la prostituzione, indifferentemente.

Questo trattamento cui è sottoposto il Paese ha un costo alto: l’assenza di una vera soluzione dei problemi più gravi e strutturali (dalla giustizia alla scuola) che non possono essere risolti in stile populistico-decisionistico. È necessaria infatti una strategia capace di grande vero consenso, che è compatibile con le regole democratiche della maggioranza/minoranza. Altrimenti il paese si spezza nel profondo. Perde l’orientamento. È quanto sta accadendo.

Esattamente quindici anni fa molti di noi si sono chiesti se non cessassimo di essere una nazione. Allora c’erano le prime aggressive provocazioni antinazionali della Lega, i forti timori per una globalizzazione appena scoperta e la nuova inattesa visibilità degli immigrati. Al confronto di oggi quei problemi erano relativamente controllabili. Quello che non era prevedibile invece era l’implosione interna della nazione cui assistiamo oggi. Sì, forse, stiamo cessando di essere una nazione.

[Le due immagini sono tratte: la prima da un vecchio film di Totò; La seconda da «Pepeblog»]

venerdì 5 settembre 2008

• " ... e gli ultimi muoiono."

Leggo in una corrispondenza dalla Mostra di Venezia su LA STAMPA del 5/9 una intervista ad un regista per un film su una fabbrica-emblema: la Tyssen Krupp. «La fabbrica dei tedeschi», dedicato alle vittime dell'incendio avvenuto nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2008. Ha introdotto nel suo film riflessioni e sensazioni, colte ambientalmente, assai forti. «Gli operai non si sentono protetti né dai sindacati che ormai pensano solo al Pil, né dalla politica.» «Quei sette morti ci hanno svegliato dal sogno e ci hanno portati davanti alla realtà: un incubo fatto di pericoli, fuoco, fiamme e lavoratori, operai che ancora oggi mettono a repentaglio la propria vita sul luogo di lavoro. Gli invisibili dell'azienda modello diventano, in una sola notte, tragicamente visibili, non solo mostrandosi come vittime, ma facendo riapparire, in modo concreto e determinato, la "popolazione" della fabbrica».



Molti anni fa (ahimè!) ho cominciato ad inserirmi nel sindacato - era il 1958!. Il settore di cui mi occupavo insieme ad altri (lavoravo in una cementeria) fu quello del settore della edilizia ed affini: la FILCA-cisl.

La precarietà era già allora un modo per poter lavorare in un settore nel quale servivano molte braccia e nel quale morti e feriti erano anche allora all'ordine del giorno. Già allora la battaglia era contro le morti e gli infortuni sul lavoro.

Il sindacato eravamo noi che lavoravamo, fissi o precari. Anche oggi il sindacato - piaccia o non piaccia ai cascami di arcaismi ideologici - sono quelli che lavorano, anche se gli spazi di intervento e d’incidenza sono estremamente ridotti dalle nuove regole imposte nelle organizzazione del lavoro, non solo per la globalizzazione dei mercati ma soprattutto per il prevalere degli individualismi di una incontrollata centralità del fattore finanziario.

Il sindacato non è un ente astratto, un ufficio in cui qualcuno si degna di interessarsi di noi: siamo noi, giovani e vecchi. Se non svolge bene il suo ruolo, guardiamoci allo specchio. Altro che 'grillismo' da quattro spiccioli, più o meno imbellettato!

Contrattualmente negli anni ne abbiamo tentate molte di strade contro il precariato ed il 'ricatto' del licenziamento, la mancanza di tutele 'effettive', la mancanza di sicurezze di vita e familiari, il naturale deficit di professionalità per la occasionalità degli impieghi, di irresponsabilità di titolari d'impresa o di dirigenti aziendali troppo spesso improvvisati.

Tutti fattori con un loro ruolo da causa prima in ogni tragedia. Forse a qualcuno non è del tutto chiaro: stavamo trattando della nostra vita e di quella dei nostri compagni, dei nostri amici di ogni giorno! Scioperi: tanti. Stato: interventi di sistema deboli e, spesso, male organizzati. Datori di lavoro: salvo alcune lodevoli eccezioni - più attenti alla velocità delle esecuzioni più che alla qualità ed alle tutele.

ERAVAMO - SIAMO - ATTORI DEL SINDACATO DEGLI ULTIMI. Come non comprendere, perciò, lo stato d'animo di chi occasionalmente (come un normale regista o giornalista) si trova di fronte a questa strage, a questo stillicidio di innocenti? Stati d'animo che possono far fare riflessioni ed assumere atteggiamenti alla 'va tutto male, madama la marchesa!'? Anche!

Forse il vero primo passo per iniziare a limitare queste tragedie sarà fatto quando nel TG della sera o di mezzogiorno, su locandine e prime pagine accanto alle notizie di nera - di cui sappiamo tutto, anche in dettagli macabri - sarà messo quanto accade ogni giorno nella giusta evidenza, sottolineandolo. La Tyssen è stato un caso grave, gravissimo, ma purtroppo una goccia d'acqua nel mare. Il ruolo di registi, giornalisti e affabulatori TV è quello di fare avanzare la presa di coscienza di questa strage. Troppo spesso il costo umano e sociale è considerato - da molti - un 'di più' rispetto al costo ‘vivo’ o al costo d'impresa.

Fa impressione veder considerare il momento lavoro come un fatto incidentale della nostra vita, come se non fosse centrale sempre. Per me cristiano praticante quando uscì l'enciclica LABOREM EXERCENS fu una boccata d'ossigeno, riscoprire la sorgente già rimessa in primo piano con la RERUM NOVARUM. In troppi - anche nelle parrocchie - mi avevano fatto considerare come accessorio il lavoro: il figlio formale del "sudore" biblico. Quando si parla di centralità dell'Uomo, di diritto/dovere alla vita ed al lavoro, di carità si parla di facce della stessa medaglia.

Ben vengano i film di denuncia ed accertamento della realtà, ma non facciamone occasione per improponibili recuperi ideologici (non importa se di destra o di sinistra) o di populismi all'italiana. Il diritto/dovere alla vita è cosa ben più complessa ed impegnativa di una denuncia.

* Il disegno di apertura di questo 'pezzo' è di Carlo Soricelli metalmeccanico in pensione, maestro d'arte naive di pittura e scultura.