giovedì 31 luglio 2008

• MORTI BIANCHE. La strage continua, ormai da troppo tempo.

Ogni giorno: morti bianche. Decine e decine, da molti anni. [Ero ancora un giovanissimo sindacalista, quando mi trovai di fronte a questa dramma ed alla fatalistica indifferenza di grandissima parte dell'opinione pubblica.]

Qualche politico si dà da fare per fare buone leggi. I controlli? Le punizioni per i trasgressori? Uno ogni tanto per cause le più varie; ma incomprensibili in una nazione che si dice civile e nella quale il Risorgimento Sociale negli anni '50 non fu uno slogan.

Tra i commenti trascriviamo una lettera emblematica del livello di insensibilità al quale siamo arrivati.

In un caso (l'ho ascoltato in questi giorni in TV). Un 'imprenditore' ha avuto la faccia tosta di chiedere perfino i 'danni' alla famiglia di un lavoratore morto.

Come si può ancora chiedere calma, silenzio, precarietà e sopportazione fatalistica alle famiglie ed agli invalidi?

NON POSSIAMO ESSERE IN UNA GUERRA PERMANENTE IN CUI MORTI E FERITI SONO SEMPRE I SOLITI.

I lavoratori organizzati nel sindacato ce l'hanno messa tutta, nonostante pressioni e timori di perdere il posto di lavoro. Molta meno ce n'hanno messa altri. La stanchezza (che può generare la quiete prima della tempesta) è ormai alle porte e foriera di populismi di ogni genere. A chi giova?

sabato 26 luglio 2008

• L'importante è non farsi risucchiare dai buchi neri che condizionano la nostra Comunità. Cacciare il nanismo.

Non possono che far riflettere alcune analisi e riflessioni del prof. Massimo Paoli, in gran parte da me condivise. Ha scritto, sul blog del locale INCONTRIAMOCI e sul Tirreno, con riferimento al 'sistema Italia' ed ai "buchi neri dell'economia": «L'immagine della forza e il senso della dinamica reale di un sistema economico possono facilmente essere estratti dall'analisi del comportamento di questi semplici indicatori: produzione, occupazione, salari e produttività. L'Italia aderisce allo spirito delle politiche europee, ma succede qualcosa di complesso e di stupefacente, il paese che ha sempre fatto della sua capacità dinamica, nella buona come nella cattiva sorte,a sua arma più affilata si ferma. » Secondo me, e non mi riferisco al prof. Paoli, per troppo tempo abbiamo guardato agli effetti e non alle cause; abbiamo preso per buoni solo - o quasi - gli elementi che pensavamo producessero risultato immediato o la accelerazione del fattore tempo come spinta ad agire per ottenere risultati altrettanto rapidi, evitando di confrontarsi col quadro nel suo insieme (anzi spesso affermando che era necessario non soffermarsi troppo.) Questo ha comportato che prendessimo per assoluta ogni conseguenza del motore “A” o del motore “B” (economico o finanziario che fosse) e la assumessimo al posto del motore (che per sua definizione è parte di un insieme). Ci siamo fermati. Se siamo stati in grado di andare da qualche parte è stato per la concomitanza casuale di fattori accidentali. È quindi il come ed il perché si progetta e si definiscono gli obiettivi - di breve e medio termine - che si determina l’importanza strategica, il quadro all'interno del quale progettare ed agire. Ineludibili sono i fattori “persona” ed “insieme di persone”; il fattore “culture”, rilevate in singoli, gruppi ampi o ristretti. Momenti come ‘flessibilità’ (troppo spesso confusa scientemente con precarietà), strumentazione degli scambi, organizzazione del lavoro o dei sistemi di produzione e finanziari sono di per sé ‘neutri’, ma non lo sono coloro che ne impostano l’uso e li utilizzano. Essi si esprimono sulla base delle ‘culture’ di cui sono espressione e che stanno quotidianamente formando. La classe dirigente del nostro Paese (politici, rappresentanti dei gruppi sociali, attori dei sistemi formativi, comunicatori) - con forte accentuazione negli ultimi 30-40 anni - si sono lasciati travolgere dalla autoreferenzialità e dalla voglia di emergere personale o di gruppo. Così facendo hanno indotto gradualmente immobilità; frutto di scarsità di idee, di debole capacità di elaborazionee progettualità surrettizia. Si è abbandonato a sé stesso il bene comune e lasciato spazio

eccessivo a chi alzava più la voce o la propria capacità di prevaricare, legalmente o meno, ed accumulare. Un tale quadro, tra l’altro, ha fatto assumere strumenti e valori maturati in altri contesti come propri. Certo, bisogna confrontarci con quanto sta maturando globalmente, ma bisogna anche trarne le conseguenze e procedere ad adeguamenti o nuove progettazioni in tempi e modi credibili, validi per la realtà nella quale viviamo effettivamente e dalla quale non possiamo comunque prescindere. È vero per l’economia, per l’organizzazione del lavoro, per ogni atto di sistema nel quale siamo coinvolti. Sono convinto che, mentre si continua con la normale attività (buona o meno buona che sia), è urgente alzare il tiro ad ogni livello e spingere per progettazioni credibili, nel tempo e nello spazio, non ‘ideologiche’, che abbiano il fattore UOMO come punto di riferimento non eludibile. Basta vedere le conseguenze delle ‘vecchie’ ideologie o delle cosiddette “nuove” (quella di ‘mercato’ per esempio). Non dubito che si converrà con me che è giunto il tempo che anche il nostro territorio (se mai non ne è stato afflitto) e quello nazionale scaccino il nanismo da cui sono affetti. Si può guarire, anche senza cure genetiche radicali o rispolverando i cascami delle vecchie ideologie o di antichi obiettivi!


giovedì 24 luglio 2008

• Uno Stradivari per l'Italia

L'ansia di rinnovamento e di unità, di voglia di custodire, ma anche di essere protagonisti del proprio futuro solidalmente con uomini e donne di ogni angolo d'Italia, prevalsero nei giorni dell'unità; nei giorni cioè della speranza del superamento di divisioni ed egoismi secolarmente consolidati. Non era certo il piemonte, e la casta che lo governava, in grado di ricomporre l'unità di lingua, politica e culturale del Paese. Con incertezze ed errori ma anche con sacrifici e drammi (spesso inenarrabili) si è giunti alla Costituzione Repubblicana, al patto di convivenza tra diversi. Il Patto che ha consentito di giungere al Risorgimento Sociale degli anni '50. Il timbro sul nostro vero riscatto. Il fratello di mia nonna paterna (Augusto Bulgheresi), giovanissimo,insieme ad altri della mia città, si volle unire con i 'bimbi' di Garibaldi - a coloro che fecero del loro meglio per abbattere egoismi e sudditanze secolari alla ricerca del 'bene comune' prima di quello individuale, familiare e di gruppo. Come non ricordarlo, oggi, per ringraziarlo di allora?



«Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti,

Dai boschi, dall'arse fucine stridenti,

Dai solchi bagnati di servo sudor,

Un volgo disperso repente si desta;

Intende l'orecchio, solleva la testa

Percosso da novo crescente romor.

Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti,

Qual raggio di sole da nuvoli folti,

Traluce de' padri la fiera virtù:

Ne' guardi, ne' volti, confuso ed incerto

Si mesce e discorda lo spregio sofferto

Col misero orgoglio d'un tempo che fu.»

(Alessandro Manzoni - ADELCHI , inizio coro atto III)

martedì 22 luglio 2008

· Scout del terzo millennio: persone normali, ma qualcuno si scandalizza

da PANORAMA.IT

di Paolo Fiora [scout del CNGEI - Associazione scout laica italiana riconosciuta dalla Federazione Italiana dello Scautismo]

Qualche tempo fa sono stati presentati, a Firenze, i risultati di un’indagine riguardante “

I giovani scout e l’Europa”. La ricerca commissionata dalla Federazione Italiana dello Scoutismo all’Istituto degli Innocenti di Firenze è stata realizzata, con approccio scientifico in occasione dell’organizzazione di un evento scout europeo:Roverway. Su 4 mila partecipanti (di età compresa tra i 16 e i 22 anni), 2.500 hanno risposto al questionario (in italiano e in inglese).

L’esito ha suscitato non poche reazioni. Ma il fatto preoccupante è che invece di sottolineare la bontà della ricerca e dell’esito della stessa, tutti hanno sparato percentuali, comunque fondate perché dichiarate in sede di presentazione, che hanno portato a scrivere titoli comeSesso, alcol e fumo, ecco lo scout del terzo millennio.

Siccome non ritengo che il foulard che portiamo al collo sia sinonimo di aureola che ci possa dare un ton

o di santità, bensì un simbolo che permette a chiunque di riconoscere delle persone che sono coinvolte in un movimento che è la prima agenzia al mondo di educazione non formale e che vivono secondo dei valori comuni. In questo movimento si ha la possibilità (dall’età di 8 anni) di imparare a vivere in comunità rispettando le proprie sfere personali, di imparare le dinamiche di una cosciente presa di decisione nei vari e differenti processi democratici, di imparare ad essere indipendenti dalle “sottane” delle proprie madri che va dal farsi da mangiare in modo decente all’essere intraprendenti in un’esperienza significante come quella dell’Erasmus, di imparare il rispetto degli altri e delle idee degli altri, di imparare a come confrontarsi in modo costruttivo per crescere nell’ottica di diventare “un buon cittadino” e di “lasciare il mondo migliore di come l’abbiamo trovato”. Tutto questo seguendo quei binari che si chiamano: valori dello Scoutismo, promessa e legge. Che non cito per lasciarvi la curiosità di andare a cercarne i significati.

Alla lettura del report della ricerca in oggetto mi è sorta un’esclamazione: “ma allora siamo normali?”. Continuando a sentirmi dire fin da piccolo che siamo dei “bambini vestiti da cretini guidati da cretini vestiti da bambini”, stavo quasi per convincermene. Ma finalmente un dato statistico ci consacra come “persone normali”, persone che sono testimoni del proprio tempo con tutti i pregi e tutti i difetti delle persone comuni. Evviva!

E invece no!! I giornali hanno puntato le luci su quelle tematiche che avrebbero fatto gridare allo scandalo, che avrebbero fatto notizia, senza porre l’attenzione su altri aspetti, come ad esempio il fatto che gran parte degli intervistati non ha fiducia nella politica e nella classe politica, ma questo forse per il momento che si stava attraversando in Italia, sarebbe stato scomodo. A nessuno è rimasto impresso il fatto che dei giovani possano rispondere con coscienza: sono credente o sono in ricerca. Nessuno si è sentito incuriosito da scoprire le percentuali di coloro che hanno risposto che nello scoutismo hanno imparato a: sapersela cavare, lavorare in gruppo, fare volontariato, confrontarsi con gli altri, essere attento agli altri, essere più responsabile, parlare in pubblico, rispettare le cose altrui.

Ma ci fermiamo sulle tematiche dei luoghi comuni: sesso, spinelli, trasgressioni in generale. Tutto concentrato sulla domanda “pensi che ti potrebbe capitare di …?”: fumare marijuana, viaggiare sui trasporti pubblici senza pagare, divorziare, ubriacarti, avere rapporti sessuali senza essere sposato. Dove la domanda manifesta una certa “potenzialità” dell’accadimento/azione ma non la matematica certezza dell’accaduto.

Proprio perché si è ritenuto dare voce alla reale lettura di questi dati: la statistica è uno dei tanti spaccati della realtà dei giovani d’oggi e lo scoutismo è un punto di riferimento per coloro che interpretano la vita secondo dei valori precisi e che si sentono a proprio agio in questo movimento seguendo i binari sopra indicati. Ho avuto l’occasione di parlare di questo argomento in una trasmissione di Radio DeeJay, durante la quale centinaia di messaggi hanno ulteriormente confermato quanto fossero veri i dati della statistica e nello stesso tempo sono stati reali testimonianze che hanno ribadito il concetto dello scoutismo come stile di vita, dello scoutismo come esperienza unica e diversa, dello scoutismo come network di persone che hanno interessi comuni.

Che lo si creda o no, gli scout sono persone impiegate negli uffici pubblici, manager e consulenti aziendali, sono maestri e professori, sono militari impiegati in Afghanistan e sono corazzieri del Presidente della Repubblica, sono i medici che fanno nascere bambini e che salvano vite, siedono in Parlamento e sono stati anche ministri, sono i panettieri sotto casa… Non mi sembrano tutti dei cretini!! Sono persone che vivono l’amore come tutti e qui viene il bello: perché se dico solo eterosessuale, nessuno si scandalizzerà, ma se dico anche omosessuale, sono sicuro che qualcuno comincerà a storcere il naso.

Anche se personalmente non condivido tutto ciò che si sostiene riguardo alle differenti tematiche sopra citate, ho imparato a rispettare le idee e le opinioni altrui e difendo il fatto che tutti possano avere l’opportunità di esprimersi proprio nell’ottica di un confronto che accresca entrambe le parti.

Mi piace pensare che finalmente l’opinione pubblica si sia accorta di noi come gente di tutti i giorni, mi dispiace pensare che, comunque, la prima volta che qualche ragazzo con il fazzolettone al collo sbaglierà direzione su un sentiero di montagna o si scotterà accendendo un fuoco, tutti grideranno ancora allo scandalo. Peccato!!

domenica 20 luglio 2008

• Dieci anni per salvare la terra

da EUROPA di sabato 19 luglio 2008
di Al Gore
Ci sono momenti nella storia della nostra nazione in cui il nostro modo di vivere dipende dal dissipare le illusioni e svegliarci davanti alla sfida del pericolo che abbiamo davanti. In situazioni del genere, siamo chiamati a muoverci subito e con audacia per scrollarci di dosso il compiacimento, dimenticare le vecchie abitudini e sollevarci, tenendo gli occhi ben aperti, davanti alla necessità di grandi camb i a m e n t i . Coloro che per qualsiasi ragione rifiutano di fare la loro parte devono essere persuasi a unirsi agli sforzi o invitati a farsi da parte. Questo è uno di quei momenti. La sopravvivenza degli Stati Uniti così come li conosciamo è a rischio. Non solo: è in gioco il futuro stesso della civiltà umana. Non ricordo un periodo in cui, nel nostro paese, tante cose, contemporaneamente, sembrano andare così male. La nostra economia è in pessima forma e va rallentando, i prezzi della benzina stanno crescendo in modo drammatico, e così le tariffe dell’elettricità. Il lavoro viene delocalizzato all’estero. Il sistema dei mutui sta collassando. Le banche, le aziende automobilistiche e altre istituzioni da cui dipendiamo sono sotto una pressione crescente. Brillanti leader del mondo degli affari ci dicono che tutto questo è solo l’inizio, a meno che non troviamo il coraggio di fare qualche importante cambiamento. Adesso. La crisi climatica, in particolare, sta diventando sempre più accentuata, in modo molto più rapido di quanto non fosse previsto. Gli scienziati che hanno accesso ai dati elaborati dalla marina, i cui sommergibili transitano sotto i ghiacci dell’Artico, ci indicano che c’è il 75 per cento di probabilità che entro cinque anni l’intera calotta polare si scioglierà durante i mesi estivi. Due imponenti studi, effettuati dagli esperti dell’intelligence dell’esercito, hanno avvertito i nostri leader delle implicazioni, pericolose, che le crisi climatiche potrebbero avere sulla nostra sicurezza nazionale, compresa la possibilità di vedere, complice il global warming, centinaia di milioni di rifugiati. Un esodo di persone, questo, suscettibile di destabilizzare le nazioni di tutto il mondo. Nel frattempo la guerra in Iraq continua e la situazione in Afghanistan sembra peggiorare. E il “tempo” sembra impazzito. Non è così? Sembrano esserci più tornado che mai, siccità più lunghe, diluvi più intensi e allagamenti mai visti. Sono convinto che una delle ragioni per cui sembriamo paralizzati di fronte a queste crisi è la nostra tendenza a offrire soluzioni vecchie a ciascuna di queste problematiche, che per giunta trattiamo separatamente, senza prendere in considerazione i legami con le altre. Eppure, se guardiamo contemporaneamente a tutte queste sfide, ci accorgiamo che c’è un filo che le lega: la nostra pericolosa dipendenza dai combustibili fossili è il cuore delle tre grandi sfide che dobbiamo affrontare – la crisi economica, quella ambientale e quella della sicurezza nazionale. Ma se prendiamo il filo comune e lo tiriamo forte, tutti questi problemi complessi cominceranno a dipanarsi e scopriremo che abbiamo già la risposta per ognuna di queste questioni. E la risposta, appunto, è che dobbiamo mettere fine alla nostra dipendenza dai combustibili fossili. Che succederebbe se potessimo usare carburanti che non siano costosi, che non inquinino e che siano abbondantemente disponibili, proprio qui sul nostro territorio? Questo tipo di carburanti ce l’abbiamo. Gli scienziati hanno confermato che sulla superficie della terra cade ogni quaranta minuti energia solare sufficiente per soddisfare per un anno intero il cento per cento dei bisogni energetici di tutto il mondo. Sfruttare solo una piccola parte di questa energia solare potrebbe fornire tutta l’elettricità che l’America usa. Attraverso i corridoi del Midwest soffia ogni giorno abbastanza energia eolica da incontrare il cento per cento della domanda di elettricità degli Stati Uniti. E l’energia geotermica può fornire allo stesso modo moltissima elettricità al nostro paese. Possiamo cominciare oggi stesso a usare l’energia solare, eolica e geotermica per fornire elettricità per le nostre case e i nostri negozi. Ma per rendere questa fantastica potenzialità una realtà e risolvere veramente i problemi della nostra nazione, abbiamo bisogno di un nuovo inizio. Oggi sfido il mio paese a impegnarsi per produrre il cento per cento della nostra elettricità da fonti rinnovabili e carbon free entro dieci anni. Questo obiettivo è raggiungibile, abbordabile e rivoluzionario. Rappresenta una sfida per tutti gli americani.
Qualche anno fa non sarebbe stato possibile lanciarla. Ma qualcosa è cambiato. La netta riduzione dei costi che si sta registrando nel campo dell’energia solare, eolica e geotermica, associata al recente e drammatico aumento dei prezzi del petrolio e del carbone, hanno radicalmente modificato l’economia dell’energia. Quando sono entrato per la prima volta al Congresso, 32 anni fa, ho ascoltato esperti testimoniare che se il petrolio fosse salito a 35 dollari al barile, le fonti di energia rinnovabile sarebbero diventate competitive. Be’, oggi il costo del petrolio è di 135 dollari al barile. Più la domanda di energia rinnovabile cresce, più i costi continueranno a diminuire. A coloro che dicono che dieci anni non sono abbastanza, chiedo di considerare quello che gli scienziati ci dicono sui rischi cui andiamo incontro se non agiamo entro questo arco di tempo. Quando il presidente John Kennedy lanciò il programma per mandare l’uomo sulla luna e riportarlo indietro sano e salvo, molte persone dubitarono che avremmo potuto raggiungere quell’obiettivo in dieci anni, come insisteva Jfk. Ma otto anni e due mesi dopo, Neil Armstrong and Buzz Aldrin camminavano sulla superficie della luna. Certo, raggiungere il cento per cento di energia rinnovabile e pulita in dieci anni richiede il superamento di molti ostacoli. Uno dei più grandi è il cattivo funzionamento della nostra politica e del nostro sistema di governo, così com’è oggi. Negli ultimi anni ci si è concentrati su politiche pensate per evitare di offendere gli interessi particolari, alternate a piccoli passi, comunque occasionali, nella giusta direzione. La nostra democrazia è sclerotizzata, in un momento in cui queste crisi richiedono audacia. Molti americani cominciano a domandarsi se non abbiamo semplicemente perso il nostro appetito per soluzioni politiche ambiziose. Ma ho cominciato a sentire voci diverse in questo paese, voci di persone che non solo sono stanche della politica dei piccoli passi e degli interessi particolari, ma sono affamate di un nuovo approccio, diverso e coraggioso. Siamo alla vigilia delle presidenziali. Siamo nel mezzo di un processo per un trattato internazionale sul clima che si concluderà prima della fine del primo anno di mandato del nuovo presidente. Dobbiamo muoverci per primi, perché è la chiave per far sì che altri paesi ci seguano e perché è nel nostro interesse nazionale farlo. È un momento “generazionale”, in cui decidiamo il nostro cammino e il nostro destino collettivo. Chiedo a voi – a ciascuno di voi – di unirsi a me per costruire il futuro. Unitevi alla mia campagna su www.wecansolveit.org, abbiamo bisogno di voi. Il 16 luglio 1969 gli Stati Uniti erano finalmente pronti a rispondere alla sfida del presidente Kennedy di far sbarcare gli americani sulla luna. Non dimenticherò mai che stavo accanto a mio padre, a poche miglia dal sito di lancio, aspettando che il gigantesco razzo Saturno 5 sollevasse l’Apollo 11 in cielo. Non dimenticherò mai l’ispirazione di quei minuti. E poi, quattro giorni dopo, ho guardato, assieme a centinaia di milioni di persone nel mondo, Neil Armstrong che faceva un piccolo passo sulla luna e cambiava la storia dell’umanità. Dobbiamo spingere la nostra nazione a raggiungere un altro obiettivo capace di cambiare la storia. La nostra stessa civilizzazione dipende dal nostro imbarcarci, adesso, in un nuovo viaggio di esplorazione e scoperta. Ancora una volta, abbiamo l’opportunità di far fare un salto gigantesco all’umanità.
* Stralci dal discorso pronunciato giovedì alla D.A.R. Constitutional Hall di Washington

mercoledì 16 luglio 2008

• Il supersindaco. Giusto per gradire ...

Stando ai progetti ed ai programmi elettorali, sembra che si voglia affrontare il problema della riorganizzazione tecnico-amministrativa delle Istituzioni. Apparentemente si muovono i primi passi, verso l'obiettivo. Il presidente della Giunta della Provincia di Firenze, Matteo Renzi, prende il toro per le corna e scrive cosa pensa. Ne riporto il testo a seguire di questa mia nota, anche perché sono convinto che ogni modifica di tal genere porta inevitabilmente a ricomporre tutto il quadro di riferimento di funzioni e poteri. Queste e quelli non possono prescindere dalla valutazione seria del tipo di partecipazione che si dovrebbe garantire a tutti i cittadini in una democrazia moderna - per come prevista e disegnata dalla nostra Costituzione.  L'ingegneria istituzionale, infatti, può soltanto accompagnare la partecipazione dei cittadini alla formazione delle decisioni comunitarie, sia che si persegua l'obiettivo di garantire a vari livelli il massimo di rappresentatività di interessi e valori civili compatibilmente con le dinamiche globali e locali; sia che si accettino le logiche di permanente ricerca del 'comandante in capo' (che inducono oligarchie e forme elettorali come l'attuale, regionale e nazionale); sia che si perseguano logiche altrettanto appiattenti come quella di credere una nazione o un territorio gestibili con le metodologie delle agorà (che prima o poi fanno apparire sulla scena il voto a domicilio, via internet, ed esaltano alcune ristrette oligarchie) o, se si preferisce, con  le dinamiche dell'assemblearismo permanente. Le valutazioni, quindi, su area metropolitana ed abolizioni delle province debbono stare a cuore perché da sempre 'forma' e 'contenuto' non sono scindibili.

A maggior ragione perché risiedo in un'area della Toscana come Livorno, alla quale ormai si pone attenzione quasi esclusivamente perché funzionale ai due capoluoghi regionali dell'asse dell'Arno: Firenze e Pisa (un po' per proprio demerito un po' per oggettive difficoltà ridistributive del sistema produttivo e di quello dei servizi a livello globale e regionale). Credo che il cosiddetto progetto comprensori, che prese il nome inizialmente dal 'Bartolini' (progetto maturato in campo sindacale e poi distorto sulla base degli egoismi e dei veti incrociati figli delle convenienze e dell'incapacità a progettare il futuro) debba essere rispolverato e riproposto dopo attenta rivisitazione. Sono cioè convinto che quando si affrontano ricomposizioni come quella delle aree metropolitane (ed è una necessità tecnico-amministrativa oggettiva) non si possa prescindere da affrontare il problema del superamento del frazionamento napoleonico dei Comuni e delle Province con le correzioni di epoca fascista o quella più recente che ha interessato Prato (almeno nella nostra Regione) nonché da una strumentazione sistemica che investa l'insieme del territorio. Se ricordo bene all'epoca della Giunta Bartolini si parlò di 24 comuni o aree di programmazione (adottate in via subordinata ed ovviamente fallite soprattutto perché, così impostate, erano considerate da tutti sovrastrutture inutili e dispendiose). 

Su Enews  n. 237  del 15 luglio 2008, Il presidente della Provincia di Firenze, Matteo Renzi, scrive:

«Può darsi che io sia superficiale o la faccia troppo spiccia. Ma ho come la sensazione che se c'è un argomento che appassiona gli addetti ai lavori e non interessa per nulla – ma proprio per nulla – le persone “normali” è quello della c.d. "ingegneria istituzionale". È quello cioè di quanti quartieri, quali istituzioni di area vasta, quali strutture devono governare un territorio. Tutto il dibattito sulla città metropolitana, insomma. E dire che agli amministratori questo argomento sembra sempre fondamentale per il futuro.

Seminari, convegni, eventi pubblici: fiumi di parole per stabilire se ci voglia un municipio o un circondario, una provincia o un'area metropolitana. Io penso, invece, che le persone trovino noiosissimo discutere dei contenitori, mentre sono convinto che sui contenuti potrebbe esserci un maggior protagonismo della società. Le persone hanno una voglia di partecipare molto maggiore di quella che noi pensiamo. E compito della politica, in questo momento, dovrebbe essere quello di agevolare le occasioni di confronto sulle questioni serie. Non sui dibattiti autoreferenziali.

Tuttavia mi viene chiesto: perché non parli della città metropolitana? Hai forse paura del supersindaco? L'avete voluto voi... Da qualche mese si parla di abolire le Province. Stava nel programma del PDL e – in modo meno tranchant – anche nel programma del PD. Ho espresso la mia posizione qualche enews fa. Ho detto, in sintesi: non è questa la strada per risparmiare soldi. Si spende più per un decreto che butta soldi nel calderone Alitalia di quanto si risparmia con l'abolizione delle province. Ma se serve dare un segnale che la musica è cambiata, noi ci stiamo. Sarebbe insopportabile che un presidente della provincia dicesse: “No, la mia seggiola non si tocca. Partite dagli altri per favore”. Il Ministro Maroni, con grande disponibilità e apertura al dialogo, ha aperto un tavolo di confronto (ormai chi non fa un tavolo è uno sfigato: con tutti i tavoli fatti la politica è la più grande falegnameria del nostro tempo) su questo tema. Ci ha convocati tutti al Viminale, ha introdotto l'argomento e poi ha ascoltato sindaci e presidenti di provincia delle nove realtà interessate. 

Sintetizzo la mia opinione per punti:

I. In campagna elettorale abbiamo proposto ai cittadini di abolire le province e di fare enti nuovi. Adesso facciamolo. Quello che allontana la gente dalla politica, infatti, non è quello che i politici fanno, ma ciò che non fanno. Hai promesso una cosa? Falla. E falla finita. Quindi: stava nei programmi la città metropolotana? Facciamola. E facciamola bene.

II. Evitiamo la simpatica scenetta per la quale con la scusa di abbassare i costi poi alla fine si spende di più. Per una cosa nuova che facciamo ce ne devono essere almeno due che eliminiamo. Se devo chiamare città metropolitana quella che prima chiamavo provincia va a finire che l'unica novità è la carta intestata. Non mi sembra un capolavoro... Vuoi la città metropolitana? Bene. Nel farla, abolisci tutto quello che puoi abolire, cominciando ovviamente dalle province. Ma guai a creare doppioni o brutte copie.

III. Eleggere un supersindaco può essere una buona idea se diamo alla città metropolitana competenze vere. Vere. Vere. Qualcuno pensa a un supersindaco come a SuperPippo dei fumetti: gli dai una nocciolina e si trasforma. Qui le cose sono un po' più complesse. Se non dai poteri reali, a che serve il tutto? Ok le competenze della Provincia che aboliamo. Ok una parte delle competenze dei comuni. Ma bisogna che qualche competenza sia “mollata” dalle regioni. Troppo spesso quando si parla di fare tagli e di semplificare le regole del gioco, le Regioni sembrano assenti. È un atteggiamento sbagliato. Le competenze delle Regioni sono tante: bisognerebbe che qualcuna di queste, le più legate ai tessuti urbani, passassero alla costituenda città metropolitana. Come dite? Ci vorrebbe un miracolo? Forse. Però mi sono stufato di vedere gli enti locali additati come luogo di spreco: se penso che il sindaco di Firenze ha uno stipendio decisamente più basso dell'ultimo capo segreteria di un assessore regionale...

IV. Firenze: il sindaco Domenici ha detto “Possiamo partire subito, con una città metropolitana che comprenda i 44 comuni della Provincia”. Io dico ok, ci sto. Mi sembra che partire subito sia un'ottima idea. Ma se la città metropolitana sarà una cosa seria – e se non lo è, inutile perder tempo – bisogna avere il coraggio di dire una cosa semplice semplice. Che un livello di governo metropolitano che si rispetti non può tener dentro Palazzuolo, Londa, San Godenzo e Montaione e lasciar fuori Prato. È una roba fuori dalla realtà. Mi scappa da ridere. Noi andiamo in Europa a dire che abbiamo uno status di città metropolitana con poteri maggiori, che però esercitiamo a Gambassi Terme o a Marradi e non a Prato. Secondo me ci pigliano per matti.

V. Ho provato a dire questa cosa di Prato e come al solito ho fatto arrabbiare tutti. Ora, non voglio fare come Jessica Rabbit che diceva “non sono cattiva è che mi dipingono così” anche perché di Jessica Rabbit non ho – diciamo – il fisico. Ma francamente non ho capito la levata di scudi pratese contro questa posizione che mi sembra di semplice buon senso. Se facciamo la città metropolitana per bene, ci deve stare anche Prato e non solo Galleno di Fucecchio. Se non la facciamo bene, a che serve? E a chi serve?»

lunedì 14 luglio 2008

• ENERGIA NUCLEARE. Il caso Tricastin svela il bluff dell’atomo sicuro

Intorno al 1975, il ministro dell’industria dell’epoca (Carlo Donat Cattin) si appresta a avviare la costruzione a Tor del Sale - area Piombino - di una struttura per l’uranio arricchito, che avrebbe dovuto servire anche per un impianto nucleare da costruire in Iran (imperante lo Scià Reza Pahlevi), in base ad accordi sui problemi energetici in corso di attuazione in quei giorni. Quella struttura al servizio di una centrale ‘veloce’ (come si disse a noi profani) era impostata sul modello Tricastin. 

Sì, proprio quello di cui si parla in questi giorni. 

Per renderci conto di quello che stava realmente accadendo sul nostro territorio, con l’aiuto di amici esperti sul piano tecnico-scientifico, facemmo ricorso ad un approfondimento intensivo sulla materia e sulle conseguenze che avremmo avuto sul nostro territorio. Non volevamo agire 'a vanvera'! 

In sostanza avremmo  messo al lavoro, nel nostro territorio, 500-600 persone - quasi tutte di provenienza esterna non avendo noi un sufficiente plafond qualificato e con esperienza di base adatta.  Avremmo avuto il problema dello smaltimento dei residui radioattivi con una dose ‘stimata’ di sicurezza per lavoratori e cittadini. 

Ci opponemmo - come Cisl locale - coi deboli mezzi di cui disponevamo, fra lo scetticismo di una parte della  organizzazione e di chi - per convenienza o meno - guardava al ‘nuovo’ come ad una sorta di idolo cui sacrificare. Certamente non solo per il nostro intervento, la struttura non fu costruita - anche se il materiale occorrente per la costruzione era parzialmente predisposto. Non posso, però, non notare che il problema della sicurezza era al centro dell’attenzione della nostra organizzazione e che su quello impostammo la nostra contrarietà. Tra questi c’era anche il rischio radioattività per le acque e - centrale - l’organizzazione dei controlli e delle verifiche di efficacia e addestramento per i lavoratori e per la popolazione. Guidammo la partita: lo scrivente nel capoluogo, a Livorno; Claudio Zari dei metalmeccanici Cisl, a Piombino. Non è, per quanto letto in questi giorni, la prima volta che a Tricastin si pongono di questi problemi. 

Questo ‘memento’ può far ritenere una mia personale contrarietà pregiudiziale all’uso dell’atomo a fini energetici. Non ci penso nemmeno! Ma su una cosa, anche oggi, dobbiamo porre attenzione assoluta (con riferimento a questa o a qualsiasi altra fonte energetica o produttiva) contro pretese ed imbonimenti di qualche oligarchia finanziaria o di qualche clan di tecnocrati o politico-partitico non possiamo non pretendere una assoluta trasparenza sul piano degli strumenti di verifica, controllo e rapidità di informazione sui pericoli per le popolazioni, locali e non. 

Quella che anche in questi giorni è mancata a Tricastin. 

Timore non infondato, dopo un attento riesame delle dichiarazioni degli attuali governanti italiani e preso atto di quanto sta accadendo in queste ore in Francia.

sabato 12 luglio 2008

• La banalità del male. Federica, l'orrore che non può capitare.

Omicidio, tentata violenza sessuale, occultamento di cadavere: sono le accuse formalizzate dal giudice spagnolo Maria Teresa Ferrer Costa a Victor, l'uruguaiano reo confesso dell'omicidio, ma non della violenza, di Federica Squarise, uccisa a Lloret de Mar (Spagna) dove era in vacanza.


da IL MESSAGGERO di  sabato 12 luglio 2008

di PAOLO GRALDI

PARLA come mangia, come beve e come si droga quel “gordo”. Un prototipo di ragazzone con il passato attraversato dalla assoluta mancanza di idee e con il futuro, sperabilmente, segnato da una condanna che gli dia tutta la vita per ripensarsi e per ripensarci.

Dunque, segnalato dagli amici ai quali chiedeva una impossibile complicità Victor il barista uruguayano che ha soffocato Federica ha raccontato com’è andata quella maledetta notte di sballo e di morte. «Insomma, può capitare, no?», ha raccontato con quel suo sguardo liquido, la testa appena rasata a zero per sfuggire agli inseguitori che lo seguivano dappresso, appoggiata a quel braccio devastato dal segno del suo orgoglio macho, un tatuaggio che sembra una piovra pronta a divorarne l’enorme stupidità.

Serata al bar nel frastuono condito dai cocktail. Rhum e zucchero, roba che entra in corpo come una endovena. Di giorno in spiaggia, di notte a ballare, a frastornarsi, a macinare sound e tequila. Con qualche pillola misteriosa dall’effetto sicuro. Si chiama sballo e produce uno stacco improvviso, come un colpo d’accetta, dalla realtà. «Può capitare, no?», continua a raccontare quell’atticciato giovanotto agitando quella manona destra, infarcita di un anello con pietra nera. Alla moda dei pirati, degli uomini duri che giocano duro perché sanno vivere pericolosamente e non gliene importa niente se esagerano nelle effusioni. Tutto sembra sottinteso. La serata ha i suoi riti e i suoi tempi. Si riempie come il buio gonfia la notte, in fretta e insieme lentamente. Nel senso che il senso del tempo si perde perché si ha tempo da perdere. Federica è una ragazza sorridente, carina, fragile, sembra disinibita. Insomma, ci sta, pensa il grosso ragazzone che le si appiccica e stringendola addosso abbrancandola la stringe a sé per mostrarle l’unica cosa che possiede davvero, i muscoli. La sequenza è già vista, mille volte, come un disco rotto che ripropone sempre le stesse immagini allucinate sicché sembrano sempre diverse. E qui quel cocktail di veleni entra nel corpo del barista e si mischia a qualcosa ch’egli sa nascondere forse persino a se stesso: la belva della violenza che è in lui è in agguato, e presto sarà più grande di lui. «Può capitare, no?». Eccome no. Che c’è di male nel corteggiare una ragazza allegra e spensierata, che è venuta fin lì con un’amica per divertirsi. Il fatto che sia lì, proprio in quel posto, sembra autorizzare l’abbattimento di qualsiasi barriera. Qui, si sa, è permesso tutto dentro la movida che macina incontri casuali come se venissero da lontano, come se poggiassero sulle colonne della fiducia ben riposta, della conoscenza di lunga data, fortificate dalla medesima cultura. La cultura che conosce il gioco, anche il gioco della seduzione e perfino quello erotico e però conosce anche i suoi limiti e sa farli valere. Questo pensa Federica di Victor: quando gli dirò basta sarà basta, non si dovrà andare oltre. Lui è di diverso parere. Quella italiana è arrivata fin lì per una notte brava, indimenticabile nella trasgressione e dunque ha 

trovato quel che cerca. «Può capitare, no?». Certo che può capitare. E poi la notte è ancora giovane, si può allungarla staccandosi dal gruppo, cercare un angolino, ascoltare la musica in lontananza e ballare lontani dalla folla. Più sentimentale, ci può stare. Il barista è conosciuto da tutti, lo sanno tutti che fa il macho ma in fondo è un bravo ragazzo, sbruffone e però innocuo. La miscela di veleni entra in corpo, profondamente, lo invade e lo pervade, se lo prende. «Ero strafatto di droga e alcol. Non capivo più niente. Può capitare, no?», confessa Victor ai poliziotti che gli chiedono di ricostruire quella notte in cui Federica se ne è andata con la sua ingenuità, fidandosi di quell’energumeno che stava trasformandosi in gorilla assassino. Victor va oltre, al di là della volontà di Federica. Non basta più dirgli di lasciarla in pace, non serve gridare aiuto, non conta graffiarlo sulle mani per divincolarsi dalla sua stretta. «Così, per farla tacere ho preso la maglietta, gliela ho stretta sulla bocca finché non ha smesso di urlare». Ecco: non può capitare, mai, per nessuna ragione, in nessuna circostanza.  Quella ferocia che si nutre della baldanza machista è sempre in agguato e a Victor sembra una meravigliosa, decisiva attenuante, scusarsi per l’accaduto, per lo spiacevole incidente, invocando droga e alcol, pillole e avances. Gli sembra naturale perché questo gli dice la sua testa, questo gli suggerisce quella che lui vorrebbe chiamare «la mia cultura di vita». 

Furbo, scaltro, sciacallo anche di fronte alla morte che ha provocato, Victor dimentica di aver ritrovato improvvisamente lucidità e di aver organizzato, per una settimana, l’occultamento del cadavere di Federica e rimesso piede sulla scena della movida.

Federica è scomparsa, se ne è andata, magari ha incontrato qualcuno che le piaceva: «può capitare, no?», ha pensato nella sua piccola mente il barista assassino. Magari sorridendo avrà pensato che tutti avrebbero creduto a questa storiella. Ingenuo e stupido, feroce e vigliacco, Victor il gordo si è assolto in fretta, aveva fretta di tornare alla movida, pronto ad altre conquiste. Chi piange Federica pensa a un fiore calpestato e chiede il tallone della legge per chi ha compiuto quel gesto che ora ha il sapore del supremo sacrilegio.

Lo stesso devono aver pensato i ragazzi di Perugia, accusati oggi dell’assassino di Meredith: eravamo strafatti, non ricordiamo niente, non siamo stati noi. Poi però sono andati a comprare i detersivi per ripulire la scena della loro furia erotica e omicida. 

L’idea che ci sia in giro gente come Victor che pensa «che può capitare» fa inorridire, segnala la caduta se non l’assenza di valori. Qui non c’entra la fatalità. Qui il protagonista è un nemico cangiante e temibilissimo: il senso che la vita non vale niente, soprattutto se è quella degli altri, e se gliela si porta via tutti capiscono «che può capitare». Non so quanto la giustizia chiederà a Victor di pagare, è sperabile che gli facciano scrivere milioni di volte in carcere: è vero, può capitare di farlo per tutta la vita.

lunedì 7 luglio 2008

• Impronte bimbi ROM


Sono, e siamo, convinti (specialmente Sarah Barbieri e Paolo Fenzi che sono stati i promotori della riflessione pubblica «NON POSSIAMO TACERE» sulle impronte ai bimbi ROM, o comunque ai ‘diversi’) che viviamo in periodi nei quali l’autoreferenzialità e l’individualismo stanno divorando e deformando valori comunitari che stanno alla base della nostra convivenza; che minano la nostra spinta all’amore, al progetto che il Signore ci ha consegnato perché lo gestissimo, in libertà ma anche in fedeltà. Ciascuno di noi è consapevole di essere molto fragile. Accoglie con maggiore facilità la ‘cultura dell’incertezza’ anziché quella delle ‘certezze’ a noi affidate perché le collocassimo nel tempo e nello spazio, le misurassimo con le persone (le vicine e le lontane) con le quali in ogni giorno ed in ogni momento camminiamo. Esalta le paure (figlie delle proprie incertezze, della propria incapacità a discernere e delle proprie lentezze e limiti di conoscenza). Si abbarbica alle certezze che ritiene di avere (spesso conquistate e proclamate solo formalmente).

Tutti noi (ci piaccia o meno) siamo schedati e ‘rilevati’ dall’anagrafe alla sanità, alle banche, nell’uso degli strumenti di comunicazione (privati e pubblici) ed a quanto investe non solo i momenti ‘pubblici’ di ciascuno ma anche i ‘privati’. Si pone - da almeno un ventennio (con il progressivo avanzamento della informatizzazione dei sistemi amministrativi) il problema dei limiti di interferenza e d’ingerenza da parte di tecnocrazie pubbliche e private sulle nostre libertà e sulle nostre scelte, individuali e di gruppo. Di questo si cerca di non parlare troppo spesso. Tutto questo fa comodo a chiunque si sia appropriato di un qualsiasi punto di gestione dello strumento ‘potere’ per poter disporre - senza un limite e controllo trasparente. Il nostro modesto ‘foglietto’ richiama un momento: prendere le impronte a bambini che vivono in gruppi ‘diversi’ e pregiudizialmente non graditi. Un momento di ulteriore degenerazione del sistema di controllo pubblico, che ha come effetto quello di criminalizzare chi ‘criminale’ non è e che è potenzialmente portatore di una cultura ‘diversa’ con la quale comunque dovremo

fare i conti, come dobbiamo farli (e facciamo da secoli!) con culture diverse da quelle maturate nei nostri territori. Qualcuno insiste con la parola ‘censimento’. Non siamo in una provincia ‘romana’, come la Galilea dei tempi della famiglia di Giuseppe. Siamo qui ed ora. Il censimento è permanente. Se non si sanno le cose è perché qualcuno non ha fatto il proprio mestiere. Vogliamo aggiungere alle conoscenze ‘anagrafiche’ di ciascuno le impronte? Bene, se finalmente ci si mette d’accordo sui dati da ‘incrociare’ e su chi ne ha l’accesso per il controllo e condizionamento, sono completamente d’accordo. Cominciare dai gruppi, ritenuti potenzialmente più pericolosi per la sicurezza pubblica? Con quali criteri devono essere identificati e da chi. Perché i bambini? Questo discorso è molto antico e non ha mai secolarmente portato a nessuna soluzione per la convivenza, se non quella di ‘escludere’, di ‘ghettizzare’, di limitare la naturale spinta alla ‘societas’ che ogni gruppo di uomini e donne, vecchi e giovani, sono portati  ad esprimere.

I bambini, di cui si parla, sono addestrati a delinquere? Quali progetti, azioni non repressive e fini a se stesse, quali obiettivi per superare quelle condizioni? Come noi pretendiamo di essere ‘ascoltati’ da loro - consenzienti o meno -, cosa stiamo facendo per ascoltarli ed ‘insieme’ superare le loro condizioni di esclusione di fatto dalla comunità? È una fatica dai risultati incerti - dicono alcuni. Verissimo. Non c’è mai niente di facile quando si affronta il problema della convivenza tra diversi. Non c’è mai niente di scontato quando si è chiamati a collaborare al progetto d’amore che Dio ci ha affidato.

mercoledì 2 luglio 2008

• NON POSSIAMO TACERE

Come cittadini, che per di più cercano di impegnarsi nella Comunità ‘da cristiani’, non possiamo accettare e tacere lo scandalo di una politica che, alimentando  paure e insicurezze , propone la rilevazione delle impronte digitali - a minori rom in ragione e difesa della loro e nostra sicurezza. Questo provvedimento peserà inevitabilmente sul vissuto di questi bambini, con una ferita che durerà tutta la vita.

Nel sessantesimo anniversario della nostra Costituzione e nel settantesimo delle mai troppo deprecate leggi razziali, le dichiarazioni di questi giorni hanno  il sapore di atti consolatori e propagandistici che - consapevolmente o meno - tendono a nascondere nella solitudine i poveri e gli ultimi, vecchi e nuovi. 

Una politica incapace di affrontare la nuova “questione sociale”, la ricostruzione cioè del tessuto sociale intorno al bene comune. Una politica che finisce per isolare gli interessi individuali e su quelli misura ogni proprio atto fissando talora priorità che inducono sempre  nuove solitudini. Quelle solitudini, che creano paure ed esclusione, diffidenza verso il reciproco ascolto.  «È la solitudine, ci dice il Card. Tettamanzi, causata soprattutto dalla privatizzazione dei tempi e degli spazi e dal conseguente calo della qualità della socializzazione, ad aver generato le paure della gente. Sono soli tanti anziani. Soli troppi giovani. Soli molti adulti, anche con posizioni sociali prestigiose. La solitudine causa ulteriore sfiducia verso l'altro e genera la paura dell'incontro.» Tutto questo serve solo ad aumentare il senso di smarrimento e la paura. 

Un gruppo di amici ebrei ha sottolineato in questi giorni: «A settant’anni di distanza, di nuovo in estate, un governo italiano procede al censimento di suoi cittadini con riferimento alla razza, perché di questo si tratta». «Silenzio pesante dell’opinione pubblica allora, silenzio pesante oggi. Ai nostri fratelli rom, fra poco, sarà impresso sui documenti il marchio della diversità, che li condizionerà per il resto della vita». E’ questo oggi, come allora, il fallimento e la cecità della Politica. Sono urgenti e necessari non provvedimenti di “ghettizzazione” ed “esclusione” ma progetti di convivenza civile e di uscita dalla povertà.

Come cittadini non possiamo accettare che ai bambini, tutti i bambini, che vivono talvolta in condizioni inaccettabili, venga negato il diritto alla cittadinanza. Un diritto che non è più uguale per tutti. 

"In un contesto che tende a incentivare sempre più l'individualismo, il primo servizio della Chiesa è quello di educare al senso sociale, all'attenzione per il prossimo, alla solidarietà e alla condivisione", ma non solo della Chiesa, a Livorno come in Italia ed in Europa. Questa la vera sfida del nostro tempo: rimettere al centro l’Uomo e riportare alla loro funzione ‘tecnica’ gli strumenti;  tra questi essenziale la politica per una vita comunitaria degna per tutti. 


Firmatari

Eloisa Aliotta, Damiana Barbato (anche a nome CEIS Comunità), Carlo Barbieri, Maria Barbieri, Sarah Barbieri, Serena Barbieri, Marco Bennici, Daniele Bettinetti, Ettore Bettinetti, Laura Bettinetti, Giulia Biasci, Roberto Biasci, Enzo Bilanceri, Andrea Cadoni (anche a nome CEIS Comunità), Daniele Capecchi, Franco Capecchi, Luca Casolaro, Cristina Cianci, Andrea Crisà, Ilaria Dal Canto, Gianluca Della Maggiore, Elena De Simoni, Mauro Donateo, Fulvio Falleni, Paolo Fenzi , Antonella Giuliani, Ivano Lazzerini, Luca Liuni, Valerio Luci, Maurizio Marchi, Monica Marchi, Letizia Marconi, Elena Marini, Federico Morelli, Antonio Nanni, Salvatore Nasca, Sergio Nieri, Fabio Pacchiani, Giuseppe Parigi, Roberto Pini, Alessandro e Margherita Ponticelli, Arcangela Rapisarda, Dino Renucci, Emanuele Rossi, Umberto Roberti, Giacomo Salvadorini, Giulio Sangiacomo, Simona Ticchi, Paolo Tiso, Martina Vecce, Lorenzo Viani, Laura e Giovanni Visconti.