giovedì 12 giugno 2008

• Gramsci rispunta da destra !

Quando non si riesce ad uscire dagli schemi ideologico-culturali, di cui ci si è nutriti nei momenti considerati migliori e si perde (si spera sempre momentaneamente) la partita della gestione diretta del potere, si tende ad adottare un atteggiamento consolatorio: attribuire ai vinti la volontà di recuperare e riconoscere logiche e strategie dei maggiori ideologi a cui da sempre chi ha perso si richiama. È vero quando il potere (ed il contropotere) sono controllati da personaggi che si sono ispirati ideologicamente alla stessa fonte o a fonti molto vicine. È vero, come nell’attuale momento italiano, quando il potere vecchio era in gran parte rappresentato da reduci di una definita ideologia (anche se non in termini esclusivi e maggioritari) e quello nuovo è rappresentato nella quasi totalità da figli e figliastri della stessa ideologia, convertiti sulla strada di Damasco alla impostazione di antichi avversari ideologici. Si tratta di persone che non riescono a scuotersi di dosso i rigidi ‘schemi di lettura’ delle cose e dei fatti, tipici delle ideologie, comunque connotate. L’articolo della Annunziata su La Stampa di oggi, ne è la dimostrazione, in qualsiasi modo lo si voglia interpretare ed accogliere. Si arriva perfino a scrivere: «La prima cosa da ricordare è che la natura non schematica del pensiero di Gramsci, uomo dai molti interessi, dagli approcci sfaccettati e non ideologici, l’ha spesso reso interessante anche a letture non di sinistra. Nel 2007 il settantennio della sua morte ha mostrato quanto complessa è la penetrazione del gramscismo. E qualcuno ha persino detto, in quell’occasione, che oggi è proprio la destra l’erede vera del gramscismo. Frase che in Italia sa di provocazione. Ma non negli Stati Uniti, se guardiamo ai neocon americani, ad esempio al Project for the New American Century, che da Gramsci prende la convinzione che l’agire politico è nella diffusione di idee nella società civile, e che solo dopo viene il successo nella politica istituzionale.» Un atteggiamento che mi ricorda quello del mio antico di testo di storia del liceo, scritto da Armando Saitta, che sosteneva che in ogni movimento rivoluzionario preunitario del nostro Paese aveva comunque a che fare Filippo Buonarroti, che ne aveva - secondo lui - di fatto la guida ideologica.

Non deve sorprendere neanche l’altra affermazione: «È la destra che da anni cerca di reinventarsi e che in questo processo cerca d’includere anche le lezioni imparate dalla cultura «di sinistra». Di tutte queste lezioni, quella di Gramsci è certo la più moderna, perché la sostituzione di egemonia a presa del potere è l’anticipazione di una società in cui classi e media, alleanze e simboli fondano un consenso molto più forte di qualunque coercizione. Del resto gli americani sanno bene che il loro impero si è costruito sull’entusiasmo suscitato nel mondo dal loro modello culturale.  Per questi rami è arrivato anche in Italia (e da abbastanza tempo) il gramscismo di destra. La settimana dopo la sconfitta del 2006 il Domenicale, edito dal senatore Dell’Utri e diretto dal giovane Angelo Crespi, titolava «Gramscismo Liberale» per invitare a una nuova riflessione. È in quel periodo post-elettorale in effetti che rinasce nel centrodestra l’attenzione sui meccanismi del potere.» È di  fatto il riconoscimento che l’origine delle ideologie del ‘900, che tanti disastri e tragedie hanno contribuito a sostenere e che si vogliono ancora ricercare, provengono dalla stessa origine speculativa tardo ottocentesca. Non solo, ma la conferma che il potere, la sua organizzazione funzionale e la formazione delle persone che lo devono gestire ogni giorno sono rivestite da ideologie e ‘cappottini’ vari. Possono esserne motori, non i finanziatori ed i produttori. Scrive ancora l’Annunziata. «È nata lì la riflessione sul potere con cui Berlusconi si ripresenta ora sulla scena, con parole come: memoria condivisa, fine della guerra ideologica, dialogo. La sua proposta è quella di costruire una sorta di meticciato politico, che fonde le varie idee e le rimacina. Il campione del processo è Tremonti, uscito liberista e tornato al governo protezionista (come sempre la sinistra). Ma a meglio svelare i nuovi toni, non a caso, sono i due ministeri che gestiscono la cultura. Sandro Bondi, il più affezionato degli uomini del Cavaliere, tra i suoi primi passi da ministro si rifà all’egemonia gramsciana e va a lodare a Cannes la vittoria di due film «di sinistra», e a dire che il cinema italiano (quello considerato tipico frutto del centrosinistra fino ad ora) non sta affatto morendo; sceglie di colloquiare sull’Unità con uno dei padri nobili dell’opposizione, Alfredo Reichlin, e di scrivere su il Foglio una recensione omaggio al libro dell’altro padre nobile, Eugenio Scalfari. E di annunciare infine, domenica scorsa, il suo programma, sempre a il Domenicale, parlando di superare concezioni di parte a favore dell’identità nazionale. Così anche la Gelmini, che cita Gramsci e recupera altre idee della sinistra: più soldi agli insegnanti e il riconoscimento che la scuola non è un disastro.»

No, gentile signora Annunziata, Gramsci c’entra come strumento da utilizzare per una riflessione ben più immediata ed occasionale: erodere ulteriormente lo spazio ideologico di chi si valuta avversario adottandone stili e apparenze ideologiche, fin dove possibile per l’affermazione del proprio progetto più o meno egemonico. Spazi per 

ideologie o pensieri non deboli, in questo ambito, non ce ne sono. Non Le pare, invece, che questa strumentazione di potere sia in questo momento propizia ad una riemersione (ben più robusta dell’attuale) di un altro figlio spurio dei cascami della sinistra hegeliana: Fini?

A me convince di più quanto affermato da Stefano Menichini su Europa, che abbiamo richiamato all’attenzione nei giorni scorsi: «La crisi del ruolo dei cattolici democratici nella politica italiana, dopo esserne stati spina dorsale e punto d’equilibrio per decenni nella Prima e nella Seconda repubblica, è l’esito di una vicenda durata anni, di uno scontro che ha modificato, nell’arco di due pontificati, il rapporto fra le gerarchie e i cattolici impegnati in politica e nei movimenti. Man mano che la Chiesa si allontanava dall’interpretazione aperta del Vaticano II, veniva ritirata la delega concessa ai cattolici democratici perché costruissero mediazioni nella sfera politica. Mediazioni giudicate, al trarre le somme di una società fortemente secolarizzata, troppo al ribasso, perdenti. La crisi del cattolicesimo democratico esplode dunque quando la Chiesa assume direttamente l’onere di contrastare la deriva secolarista e relativista, e chiama intorno a sé in obbedienza ordini e movimenti. Un fenomeno che la sinistra non ha visto, o meglio ha equivocato scambiandolo per un mero spostamento “a destra”, confermando alle proprie componenti cattoliche il mandato di coprire il fronte (è il modello di gioco abitualmente definito dalemiano). Un fronte che intanto non c’era più.» Questi sono gli spazi, non ideologici, che hanno dato origine all’attuale quadro. Il vanificarsi delle idee strategiche di origine più o meno hegeliana (a destra come a sinistra), la crisi di delega tra gerarchia ecclesiale e cattolici impegnati in politica. Entrambe in cerca di un approdo che, al momento, (almeno io) non si intravede.

Come dicevamo i miei vecchi: calma e gesso e non lasciare spazi scoperti perché (avversari privi di valori o dal pensiero molto ma molto debole) possono occuparli e ridurre la possibilità di un recupero dignitoso della politica.



2 commenti:

Ettore ha detto...

A indiretta conferma di impressioni e valutazioni su quanto scritto da Lucia Annunziata e da Stefano Menichini nei giorni scorsi, ecco che arriva un “reduce” importante (questa volta dell’ex sinistra del partito socialista). «Ma allora, s’ete sempre tutti lì. S’ete tutti sparpagli! In tutti i bu’i ‘ome la mota!», diceva un vecchio contadino stanco in attesa del sole. Ce ne sono ancora molti. Di giovani in grado di raccogliere errori ed esperienze del passato (di posto-hegeliani o di post tomisti) per sostenere le nuove speranze e non farle spegnere, se ne vedono pochi. I pochi che fanno capolino, sembra che nessuno li aiuti a formarsi e ad emergere. Troppo spesso lo strumento ‘potere’ li avvolge e sommerge. Situazione molto, ma molto, pericolosa.
Fra tutti, dobbiamo rimboccarci le maniche!!!
Ettore
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LA STAMPA - 16/6/2008

Il fascino discreto di Gramsci
di FABRIZIO CICCHITTO *

Gentile direttore,
la singolarità della figura di Gramsci sta nel fatto che per un verso essa è tutta collocata nella storia del Pcd’I degli anni Venti e Trenta, che per altro verso ha sviluppato una elaborazione culturale utilizzata da Togliatti e dal Pci dagli anni Quaranta agli anni Settanta, e che un aspetto della sua riflessione, con i dovuti cambiamenti, può essere tuttora utilizzata da qualunque forza politica, quindi, come ha scritto Lucia Annunziata, paradossalmente anche dal centro-destra.

Il nocciolo duro dei Quaderni dal carcere è costituito dalla riflessione sulle ragioni della sconfitta del leninismo, inteso come rottura rivoluzionaria, nell'Occidente. Gramsci ha rintracciato queste ragioni innanzitutto nell'esistenza nell'Occidente di una robusta società civile che non consentiva le scorciatoie trovate da Lenin e da Trockij («la rivolta contro il capitale», appunto) nella Russia zarista. Allora nei Quaderni si è posto il problema di quale doveva essere la strategia del movimento comunista nell'Occidente e l'ha identificata in quella che è stata chiamata la conquista dell'egemonia: in una società dominata sul terreno delle forze produttive dal capitalismo e sul terreno politico da conservatori, moderati e riformisti, l'obiettivo dei comunisti deve essere quello della graduale conquista del «cervello» di quella società, cioè delle sue casematte ideologico-culturali: la scuola, le case editrici, le redazioni dei giornali, la magistratura, l'elaborazione culturale e l'organizzazione della cultura in quanto tali. Partendo da tale lavorio nel profondo e sfruttando le eventuali crisi organiche di un determinato sistema economico-sociale-politico di stampo capitalista e moderato, un partito comunista dell'Occidente sarebbe potuto risalire alla conquista del totale potere politico.

La nozione gramsciana di egemonia, presa nella sua organicità, è caratterizzata da un totalitarismo sottile e sofisticato, diverso da quello rozzo e criminale dello stalinismo, ma comunque pervasivo e pericoloso. Togliatti ebbe la genialità di depurare il lascito gramsciano di tutti i suoi elementi ereticali rispetto allo stalinismo e si pose l'obiettivo di lavorare per superare la vittoria politica di De Gasperi e della Dc, attraverso l'esercizio dell'egemonia sul piano culturale e quindi con la graduale conquista delle casematte ideologico-istituzionali-giudiziarie del sistema. Su questo piano il Pci è stato di una bravura straordinaria anche approfittando della distrazione della Dc e poi del Psi e dei partiti laici su questo terreno.

L'importanza di questa operazione si è vista in una fase di crisi organica del sistema, dal 1989 al 1994, quando in seguito al crollo del muro di Berlino e all'adesione dell'Italia al trattato di Mastricht sono venuti meno alcuni dei fondamenti della Prima Repubblica, dall'assenza della concorrenza sul piano economico alla dialettica comunismo-anticomunismo sul piano politico. A quel punto la forza più attrezzata sul terreno del controllo delle casematte ideologico-culturali (giornali e magistratura), cioè il Pci-Pds, ha avuto gli strumenti insieme mediatici e operativi-militari per liquidare le altre (la Dc, il Psi, i partiti laici) come è avvenuto con Tangentopoli. Subito dopo, però, questa forza è stata messa in questione da chi, come Berlusconi - non per un disegno politico precostituito, ma anzi per via imprenditoriale - si era dotato di un mezzo, la presenza sul terreno della televisione privata, che, almeno nella fase iniziale, si è rivelato in grado di contestare il peso e il ruolo esercitato appunto da alcune delle «casematte tradizionali» (in primo luogo la carta stampata e la magistratura fortemente collegate). A ciò si sono aggiunti un nuovo modo di fare politica e la demistificazione dell'egemonia culturale della sinistra attraverso la valorizzazione di autori e culture cattoliche e liberalsocialiste fino ad allora emarginate e neglette.

Allora, a mio avviso, un «pezzo» dell'elaborazione gramsciana ha tuttora una sua modernità, a condizione che la si sottoponga a una duplice operazione culturale: quella di considerare Antonio Gramsci nel suo contesto storico e nella sua organica collocazione nella storia comunista e quella di relativizzare e storicizzare la nozione di egemonia che, presa nella sua globalità, ha una organica valenza totalitaria. Invece, se utilizziamo una nozione relativizzata di egemonia ridimensionandola al ruolo di strumento di quella «battaglia delle idee» che è uno degli elementi della lotta politica (relativismo che non è in Gramsci), allora parliamo di una categoria che ha tuttora una sua validità e funzione e che ogni schieramento politico deve essere in grado di esercitare al di fuori di ogni pretesa totalizzante. Nel passato il fatto di non essersi posto il problema della battaglia culturale è stato un punto debole della Dc. Su questo terreno, oggi, il centro-destra ha comportamenti contraddittori ma delle carte da giocare, mentre la sinistra sta perdendo colpi per la crisi devastante della sua cultura: essa si difende per la permanente potenza della sua organizzazione culturale e della conseguente gestione del potere che finora è servita ad attutire gli effetti della disintegrazione del suo messaggio globale.

* Presidente del Gruppo parlamentare del Popolo della Libertà alla Camera, attualmente militante di Forza Italia

Ettore ha detto...

Da: "Bulfardo Romualdi"
Data: 17 giugno 2008 10:16:52 GMT+02:00

Oggetto: Su Gramsci

Dopo l’approfondimento di Ettore che riflette, sullo spunto di un articolo di Annunziata, sul “gramscismo” da una prospettiva di “sinistra”, invio una riflessione che Cardini sviluppa da una prospettiva di “destra” per evidenziare i limiti oggettivi del gramscismo. Uso i termini sinistra e destra per semplificare al massimo il linguaggio.
Ciao, Fardo


SU GRAMSCI
TORNANO I NON CONFORMISTI
FRANCO CARDINI – Avvenire 14 giugno 2008
La polemica di recente riaperta e rimbalzata nei nostri mass media a proposito del pensiero del fondatore del comunismo italiano è molto seria ma tutt’altro che nuova. Già una quarantina di anni or sono il valoroso editore italiano delle opere di Nietzsche, Mazzino Montinari, si era posto il problema se l’autore dello Zarathustra fosse davvero araldo di posizioni 'di destra'; ma analogo tema era già stato proposto per Wagner.
Tanto Nietzsche quanto Wagner erano tradizionalmente considerati precursori della destra più estrema, e in quanto tali ispiratori di Hitler. Eppure, il primo di loro aveva espresso una condanna di fuoco contro nazionalismo e razzismo, e proprio in polemica con il secondo; il quale a sua volta era stato entusiasta sostenitore della Costituente di Francoforte del 1848, modello della sinistra liberale. E, del resto, a che tipo di «destra» poteva appartenere lo stesso Hitler, che non aveva mai nascosto le sue antipatie per il conservatorismo tedesco? Erano «di destra» gli uomini dell’Action Française, monarchici ma ammiratori di Sorel? Era «di destra » il sindacalista Filippo Corridoni, interventista e ispiratore di Mussolini ma nemico giurato del liberal-liberismo? Era «di destra» l’altro maestro di Mussolini, Gabriele D’Annunzio, che ai primi del Novecento era andato «a sinistra», «verso la vita», e che durante la Reggenza di Fiume aveva emanato la semibolscevica «Carta del Carnaro», poi modello della «Carta del Lavoro» fascista del 1926? E insomma, era «di destra» il fascismo stesso, nato repubblicano e semisocialista nel ’19 e morto dopo aver emanato la «Carta» socializzatrice di Verona del ’44? Non erano quindi poi così strampalate, negli anni Settanta, le posizioni dei ragazzacci italiani della «Nuova destra» che, guidati da Marco Tarchi e ispirati da Alain De Benoist, parlavano di un «gramscismo di destra», e addirittura di un «guevarismo di destra» fondati entrambi sullo stretto e profondo rapporto tra idea di nazione e giustizia sociale. È pertanto forse significativo che la polemica su Gramsci rinasca oggi, vedi il «Giornale» che ieri gli dedicava ben due pagine, con una sinistra in crisi e una destra a caccia di legittimazione culturale. Se apparve malde-stra, qualche settimana fa, la pretesa di 'appropriazione' di personaggi come Don Milani e La Pira da parte di una destra liberal-liberista di stampo berlusconiano, la proposta di ascrivere Antonio Gramsci «a una certa destra» appare più fondata.
Una «certa destra», appunto: quella di Alain de Benoist, per esempio, il quale però da tempo non si definisce più «di destra» (e che, soprattutto, non sta più «a destra»: e questo, attenzione, non è un gioco di parole). Ma questa «destra» è ormai quasi diametralmente opposta, sul piano concettuale non meno che su quello pratico, rispetto al bushismo e al berlusconismo. E allora? Il nodo del problema sta nella dinamica storica. La distinzione ed opposizione tra destra e sinistra era chiara nell’Inghilterra sette-ottocentesca, quella dei Tories conservatori contro gli Whigs progressisti. Era chiara all’indomani della Rivoluzione Francese, quando la destra era col Trono, l’Altare, la Tradizione e le Libertà comunitarie e la Sinistra era con la Repubblica, l’Anticattolicesimo (ateo o teista che fosse), il Centralismo statale e la Libertà individuale.
Ma le idee hanno una loro vorticosa dinamica. Oggi tutti sono 'liberali', quelli di destra non meno di quelli di sinistra. Lasciamo perdere quanto ci sia di strumentale. Ma per tutto il Novecento si è parlato di «liberalsocialismo», di «nazionalismo sociale» o addirittura di «nazionalsocialismo». È evidente che le grandi dicotomie (libertà comunitaria vs libertà individuale, comunità vs società, libertà vs giustizia) possono inquadrare il pensiero politico, ma non bastano a risolvere le questioni suscitate da una dialettica animata da una forte e continua dinamica storica.