sabato 26 luglio 2008

• L'importante è non farsi risucchiare dai buchi neri che condizionano la nostra Comunità. Cacciare il nanismo.

Non possono che far riflettere alcune analisi e riflessioni del prof. Massimo Paoli, in gran parte da me condivise. Ha scritto, sul blog del locale INCONTRIAMOCI e sul Tirreno, con riferimento al 'sistema Italia' ed ai "buchi neri dell'economia": «L'immagine della forza e il senso della dinamica reale di un sistema economico possono facilmente essere estratti dall'analisi del comportamento di questi semplici indicatori: produzione, occupazione, salari e produttività. L'Italia aderisce allo spirito delle politiche europee, ma succede qualcosa di complesso e di stupefacente, il paese che ha sempre fatto della sua capacità dinamica, nella buona come nella cattiva sorte,a sua arma più affilata si ferma. » Secondo me, e non mi riferisco al prof. Paoli, per troppo tempo abbiamo guardato agli effetti e non alle cause; abbiamo preso per buoni solo - o quasi - gli elementi che pensavamo producessero risultato immediato o la accelerazione del fattore tempo come spinta ad agire per ottenere risultati altrettanto rapidi, evitando di confrontarsi col quadro nel suo insieme (anzi spesso affermando che era necessario non soffermarsi troppo.) Questo ha comportato che prendessimo per assoluta ogni conseguenza del motore “A” o del motore “B” (economico o finanziario che fosse) e la assumessimo al posto del motore (che per sua definizione è parte di un insieme). Ci siamo fermati. Se siamo stati in grado di andare da qualche parte è stato per la concomitanza casuale di fattori accidentali. È quindi il come ed il perché si progetta e si definiscono gli obiettivi - di breve e medio termine - che si determina l’importanza strategica, il quadro all'interno del quale progettare ed agire. Ineludibili sono i fattori “persona” ed “insieme di persone”; il fattore “culture”, rilevate in singoli, gruppi ampi o ristretti. Momenti come ‘flessibilità’ (troppo spesso confusa scientemente con precarietà), strumentazione degli scambi, organizzazione del lavoro o dei sistemi di produzione e finanziari sono di per sé ‘neutri’, ma non lo sono coloro che ne impostano l’uso e li utilizzano. Essi si esprimono sulla base delle ‘culture’ di cui sono espressione e che stanno quotidianamente formando. La classe dirigente del nostro Paese (politici, rappresentanti dei gruppi sociali, attori dei sistemi formativi, comunicatori) - con forte accentuazione negli ultimi 30-40 anni - si sono lasciati travolgere dalla autoreferenzialità e dalla voglia di emergere personale o di gruppo. Così facendo hanno indotto gradualmente immobilità; frutto di scarsità di idee, di debole capacità di elaborazionee progettualità surrettizia. Si è abbandonato a sé stesso il bene comune e lasciato spazio

eccessivo a chi alzava più la voce o la propria capacità di prevaricare, legalmente o meno, ed accumulare. Un tale quadro, tra l’altro, ha fatto assumere strumenti e valori maturati in altri contesti come propri. Certo, bisogna confrontarci con quanto sta maturando globalmente, ma bisogna anche trarne le conseguenze e procedere ad adeguamenti o nuove progettazioni in tempi e modi credibili, validi per la realtà nella quale viviamo effettivamente e dalla quale non possiamo comunque prescindere. È vero per l’economia, per l’organizzazione del lavoro, per ogni atto di sistema nel quale siamo coinvolti. Sono convinto che, mentre si continua con la normale attività (buona o meno buona che sia), è urgente alzare il tiro ad ogni livello e spingere per progettazioni credibili, nel tempo e nello spazio, non ‘ideologiche’, che abbiano il fattore UOMO come punto di riferimento non eludibile. Basta vedere le conseguenze delle ‘vecchie’ ideologie o delle cosiddette “nuove” (quella di ‘mercato’ per esempio). Non dubito che si converrà con me che è giunto il tempo che anche il nostro territorio (se mai non ne è stato afflitto) e quello nazionale scaccino il nanismo da cui sono affetti. Si può guarire, anche senza cure genetiche radicali o rispolverando i cascami delle vecchie ideologie o di antichi obiettivi!


2 commenti:

Ettore ha detto...

Alessandro Marchiori ha diffuso ieri una riflessione di Ilvo Diamanti, che completa quela postata nel blog. È molto lunga, purtroppo. Cerco di riportarne il nocciolo.
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Maledetti professori di ILVO DIAMANTI - 26 luglio 2008
«IL "PROFESSORE", ormai, primeggia solo fra le professioni in declino. Che insegni alle medie o alle superiori ma anche all'università: non importa. La sua reputazione non è più quella di un tempo. Anzitutto nel suo ambiente. Nella scuola, nella stessa classe in cui insegna. Gli studenti guardano i professori senza deferenza particolare. E senza timore. In fondo, hanno stipendi da operai specializzati (ma forse nemmeno) e un'immagine sociale senza luce. Non possono essere presi a "modello" dai giovani, nel progettare la carriera futura. Molti genitori hanno redditi e posizione professionale superiori. E poi, la cultura e la conoscenza, oggi, non vanno di moda. E' almeno da vent'anni che tira un'aria sfavorevole per le professioni intellettuali. Guardate con sospetto e sufficienza.
Siamo nell'era del "mito imprenditore" . Dell'uomo di successo che si è fatto da sé. Piccolo ma bello. E ricco. Il lavoratore autonomo, l'artigiano e il commerciante. L'immobiliarista. E' "l'Italia che produce". Ha conquistato il benessere, anzi: qualcosa di più. Studiando poco. O meglio: senza bisogno di studiare troppo. In qualche caso, sfruttando conoscenze e competenze che la scuola non dà. Si pensi a quanti, giovanissimi, prima ancora di concludere gli studi, hanno intrapreso una carriera di successo nel campo della comunicazione e delle nuove tecnologie.

Competenze apprese "fuori" da scuola. Così i professori sono scivolati lungo la scala della mobilità sociale. Ai margini del mercato del lavoro. Figure laterali di un sistema - la scuola pubblica - divenuto, a sua volta, laterale. Poco rispettati dagli studenti, ma anche dai genitori. I quali li criticano perché non sanno trasmettere certezze e autorità; perché non premiano il merito. Presumendo che i loro figli siano sempre meritevoli.
Si pensi all'invettiva contro i "professori meridionali" lanciata da Bossi nei giorni scorsi. Con gli occhi rivolti - anche se non unicamente - alla commissione che ha bocciato "suo figlio" agli esami di maturità. Naturalmente in base a un pregiudizio anti-padano. I più critici e insofferenti nei confronti dei professori sono, peraltro, i genitori che di professione fanno i professori. Pronti a criticare i metodi e la competenza dei loro colleghi, quando si permettono di giudicare negativamente i propri figli. Allora non ci vedono più. Perché loro la scuola e la materia la conoscono. Altro che i professori dei loro figli. Che studino di più, che si preparino meglio. (I professori, naturalmente, non i loro figli).

Va detto che i professori hanno contribuito ad alimentare questo clima. »

Ettore ha detto...

Riceviamo da Armando Serra


Caro Ettore,

grazie per mantenere il 'filo' della discussione e della riflessione: leggendo questi interessanti interventi che hai suggerito, viene da dire che se la spinta all'innovazione manca, deve essere generata in qualche modo, a partire dai diretti interessati. Per i livornesi sembra che non interessi molto l'utilizzo e la destinazione di beni di interesse comune, come Villa Pendola e la Stazione S.Marco...

Del resto è stato così per lo svuotamento del centro cittadino ad opera dei centri commerciali, e lo spirito critico e irridente verso l'autorità sembra trovare la sua massima espressione nella interpretazione creativa del codice della strada.

In fondo Livorno è una città che offre già qualcosa a chi pure ha poco: il bel lungomare, il clima piacevole per buona parte dell'anno consente a molti di vivere in una sorta di vacanza perenne, e come accade per la vacanza, si rimandano le questioni importanti al momento del 'rientro'... O punto di non ritorno, come è stato scritto.

Non essendo ancora una città del terzo mondo, Livorno sembrerebbe avere le forze e le risorse per fare da sè, a giudicare da quanto viene sfoggiato lungo le strade cittadine, e i negozi del lusso che sembrano estranei al processo di decadenza economica e commerciale.

E invece aspettiamo gli interventi 'da fuori', un pò come se fossimo ancora all'epoca delle macerie del X porto.

Dove sono i capitali a Livorno, e in che modo sono impiegati? Speculazione finanziaria, investimenti ad inseguire la 'bolla' edilizia, o cosa ancora?
Che ne è del BIC, delle infrastrutture di area vasta, della possibilità di perseguire progetti imprenditoriali nella realtà?
Personalmente sono un pò 'stufo' di sentire parlare e riparlare di Azimut e Porta a Mare, Bulgarella e l'Hotel Palazzo, Zolesi e la Kayser, come unici esempi dei motori trainanti dell'economia locale...

Senza fare molta strada - vedi Pisa - si trovano situazioni diverse... E allora, perchè non ripristiniamo il Porto Pisano, e andiamo per dieci o vent'anni di amministrazione controllata sotto Pisa? E' la differenza dell'essere 'ganzi' a parole o nei fatti, nella concretezza.
Rimane sempre una questione di persone e di idee, a partire da chi ne ha bisogno per vivere, crearsi una prospettiva, e immaginare di avere un futuro, a Livorno. E' colpevole a questo punto pensare che le responsabilità siano sempre e comunque degli 'altri'...

Un caro saluto

Armando