sabato 13 settembre 2008

• Populismo. Il Paese ha perso l'orientamento?

Seguire quanto accade in questi giorni nel nostro Paese è ancor più problematico di sempre. Non condivido del tutto la riflessione che ci propone Gian Enrico Rusconi; o, per lo meno, non arrivo all'accentuato pessimismo che egli esprime. Ho sempre avuto fiducia nella capacità di reazione mia e di coloro che ho conosciuto lungo il mio cammino. Quindi la speranza non muore.

Tuttavia non posso non osservare che, non solo a prima vista, i valori della attuale 'destra' italiana non sono identificabili col motto: Dio, Patria, Famiglia - se mai lo sono stati veramente. Uno slogan 'vecchio' altrettanto quanto lo sono i luoghi comuni spesso ricordati ed evidenziati dai mass media. A quanto vedo e sento, oggi, si sta da una parte, nella gran parte dei casi, perché si teme o meno il 'diverso' - soprattutto pensando alla immagine che vorremmo proiettare noi stessi o come micro-gruppo; perché si spera di soddisfare questo o quel piccolo desiderio (immediato e ravvicinato; grande o piccolo che sia) in cerca del suo appagamento. Si sta da una parte, piuttosto che da un'altra, per rispetto di vecchie battaglie, trincee e medaglie oppure di antiche indifferenze. Non si sta da nessuna parte perché si è travolti dai problemi della sopravvivenza quotidiana e di quella di chi ci vive immediatamente vicino oppure perché soffocati dalle dietrologie che ogni giorno vengono ammannite attraverso mass media o le immagini televisive. Le attuali ideologie di mercato e consumo hanno annebbiato (mediamente) valori maturati in duemila anni di storia durante i quali si è vissuto il messaggio evangelico per come la 'cultura' del momento riusciva a filtrarlo.

L'articolo di Rusconi vale la pena, comunque, di una ulteriore e meno immediata riflessione.

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LA STAMPA – 13/9/2008

Populismo e il passato che ritorna

di GIAN ENRICO RUSCONI

Il Paese ha perso l’orientamento. Nessuno lo rappresenta più davvero. Testarde fazioni politiche contrapposte tengono in ostaggio la politica.

Il ceto degli intellettuali si è dissolto in singoli individui o in piccoli gruppi. Non solo ha perso valore la qualifica di destra o sinistra, non ci sono più conservatori e progressisti, ma si è smarrito il senso di ciò che tiene insieme questo Paese. Nessuno sa più dirne le ragioni, in modo convincente per tutti, pur facendo attenzione alle legittime differenze.

La storia nazionale è impunemente sequestrata da dilettanti e mistificatori. Ormai si può dire tutto su tutto - dall’8 settembre al terrorismo delle Brigate Rosse. Ciò che importa è il rumore mediatico che copre ogni altra voce e può contare sulla spossatezza degli studiosi seri. La serietà è diventata noiosissima in questo Paese: è intollerabile e incompatibile con il talk show permanente.

C’è in giro una pesante aria decisionista. A parole almeno. Comincia dai vertici dei ministri, indaffarati a fare proclami, cui non sappiamo che cosa davvero seguirà. Colpisce l’irresponsabilità e il dilettantismo di ministri che parlano (pensando in realtà soltanto ai media) come se tutto dipendesse dalle loro parole.

Come se la scuola - per fare un esempio - non fosse una grande complessa istituzione tenuta in piedi da migliaia di professionisti che hanno una loro competenza ed esperienza, di cui tener conto. No. Sono trattati come zelanti esecutori di decisioni calate dall’alto.

Ma da dove è spuntata fuori questa classe ministeriale? Da quale cultura? Dalla destra storica liberale? Dal fascismo riciclato democraticamente? No, per carità - si obietta subito -, non incominciamo con le genealogie ideologiche. Ciò che conta è «fare ordine» contro il «disordine della sinistra» - come dice il Cavaliere.

Mettere ordine, ripulire, punire, comandare. Se è il caso, mettere in galera clandestini, teppisti di stadio, prostitute di strada. Come se fossero la stessa cosa.

Naturalmente una società ordinata e sicura è un valore collettivo. E non finiremo mai di rimproverare la sinistra per essersi fatta scippare per malinteso «buonismo» questo valore. Per questo motivo non solo ha perso le ultime elezioni, ma adesso ha perso anche la testa. Infatti non sa più come reagire. A ogni iniziativa «d’ordine» ministeriale o governativa, balbetta e si divide.

Ma quali sono i valori della nuova destra populista che pretende di essere innanzitutto pragmatica, anti-ideologica? A prima vista sono i valori tradizionali di «Dio, patria e famiglia». Naturalmente al posto di Dio oggi si preferisce parlare di «radici cristiane»; l’idea di patria richiede qualche aggiustamento critico; soltanto la famiglia sembra mantenere le vecchie connotazioni. Ma è una pura finzione, se guardiamo ai comportamenti reali e non alle dichiarazioni fatte «per compiacere la Chiesa» (parole di Berlusconi).

In realtà la vera chiave della cultura politica di oggi è nel termine di «populismo» che va inteso non in modo generico, ma appropriato. Il populismo democratico ha quattro ingredienti: un popolo-elettore che tende a esprimersi in uno stile tendenzialmente plebiscitario con un rapporto di finta immediatezza con il leader; la dominanza di una leadership personale, gratificata di qualità «carismatiche»; un sistema partitico semplificato con un ricambio di élite politiche che è di supporto immediato al leader; il ruolo decisivo e insostituibile dei media allineati. Sottoprodotti di questa situazione sono la iperpersonalizzazione della politica e la sua spettacolarizzazione.

Gli elettori scelgono o si orientano al leader con aspettative di tipo decisionistico, per l’insofferenza verso le eccessive mediazioni parlamentari e le corrispondenti differenziazioni partitiche.

Da qui l’attivismo cui assistiamo quotidianamente. E le misure populistiche fatte appunto per soddisfare un immediato desiderio di ordine: contro la violenza di stadio come contro la prostituzione, indifferentemente.

Questo trattamento cui è sottoposto il Paese ha un costo alto: l’assenza di una vera soluzione dei problemi più gravi e strutturali (dalla giustizia alla scuola) che non possono essere risolti in stile populistico-decisionistico. È necessaria infatti una strategia capace di grande vero consenso, che è compatibile con le regole democratiche della maggioranza/minoranza. Altrimenti il paese si spezza nel profondo. Perde l’orientamento. È quanto sta accadendo.

Esattamente quindici anni fa molti di noi si sono chiesti se non cessassimo di essere una nazione. Allora c’erano le prime aggressive provocazioni antinazionali della Lega, i forti timori per una globalizzazione appena scoperta e la nuova inattesa visibilità degli immigrati. Al confronto di oggi quei problemi erano relativamente controllabili. Quello che non era prevedibile invece era l’implosione interna della nazione cui assistiamo oggi. Sì, forse, stiamo cessando di essere una nazione.

[Le due immagini sono tratte: la prima da un vecchio film di Totò; La seconda da «Pepeblog»]

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