
«Ci risiamo. Dopo il caso di Hina l’estate 2006 (uccisa a Brescia dal padre perché accusata di vivere troppo «all’occidentale») e quello di Saana l’anno scorso (accoltellata dal padre marocchino perché voleva vivere con il fidanzato italiano), un altro orribile fatto di sangue che ha coinvolto una famiglia di diversa cultura e tradizione (questa volta pakistano-musukmana) nel nostro Paese.
Nel Modenese un padre ha ammazzato la moglie per una lite sul matrimonio combinato della figlia, Nosheen, che avrebbe dovuto sposare un connazionale. La ragazza non voleva saperne, il fratello l’ha presa a sprangate e l’ha ridotta in fin di vita. La madre, che prendeva le difese della figlia, è stata lapidata dal marito.
Molta è la strada che - tutti insieme (schedati o no) - dobbiamo ancora fare. Gli innesti forzati e lasciati a se stessi procurano lacerazioni, disorientamenti e arroccamenti su antichi e consolidati modelli degli uni o degli altri.
Altre due persone massacrate. Le nostre leggi attuali, esasperate spesso da metodi e comportamenti locali. non solo non aiutano ma aumentano la solitudine di chi è in difficoltà ed ha accettato di procedere per il cambiamento imposto da una realtà diversa da quella delle sue origini.
Gli individualismi e gli egoismi, piccoli e grandi, di molti fanno il resto. Queste donne - e le molte ignorate o scarsamente considerate - sono delle vere e proprie martiri.
Sembrerebbero cronache d’altri tempi, e altri luoghi. Invece succede in Italia, nel 2010. Famiglie musulmane - pakistane, egiziane, marocchine, algerine - che pretendono di trapiantare in Italia costumi del loro Paese; simile pretesa anche a quella di nostri recenti antenati.
Cous cous, veli e servitù di genere e di stato: tracce emergenti e visibili.
Pagine da leggere per scrivere di un’integrazione, solo che se ne abbia volontà e cultura, da traguardare con tenace pazienza e soprattutto attraverso reciproca conoscenza ed accettazione.
1 commento:
EUROPA - 2 dicembre 2010
Il caso dell'iraniana Shahla, morta nel silenzio dell'Occidente
Sakineh viva, Shahla può morire
Gli striscioni con la foto gigante di Sakineh sono ancora appesi un po’ dappertutto, sulle facciate degli edifici pubblici. E Sakineh Mohammadi Ashtiani per fortuna è ancora viva, chiusa in qualche carcere del regime iraniano.
Shahla invece è morta. Non c’è nessuna gigantografia di Shahla appesa in Italia, nessuno ha mai messo la sua fotina al posto della propria su Facebook, non ci sono state fiaccolate né pronunce ministeriali.
Così, almeno per quanto riguarda l’Italia, il cui cuore batte giustamenre per Sakineh, Shahla Jahed ieri ha potuto essere appesa a un cappio nel carcere di Evin senza il minimo tentativo di salvarla.
Dicono che il suo caso fosse diverso da quello di Sakineh. In effetti, non ha mai rischiato la lapidazione per adulterio: visto che la sua posizione era formalmente corretta (“moglie provvisoria” di un noto calciatore, cioè concubina riconosciuta dalla legge islamica), l’accusa è sempre stata direttamente di omicidio (la vittima era la “prima moglie” dell’uomo, Nasser Mohammad Khani): quindi condanna all’impiccaggione, ciò che rischia adesso Sakineh dopo la rinuncia alla lapidazione.
A parte il forte elemento simbolico dell’uccisione a colpi di pietre, il caso non è dunque così diverso. O meglio è diversissimo: Sakineh è viva, in qualche modo protetta dal suo essere diventata un caso mondiale; Shahla è morta perché, nonostante l’impegno di Amnesty International, in otto anni il suo caso fuori dall’Iran non è mai diventato abbastanza clamoroso da smuovere i media, le diplomazie, i big che hanno invece firmato appelli per Sakineh, l’opinione pubblica occidentale. Sicuramente, non quella italiana. Questa storia insegna qualcosa, e non solo sulla crudeltà della legge islamica. Qualcosa sui meccanismi del circuito mediatico mondiale, sul terno al lotto (un buon avvocato? un articolo di giornale?) che può farti diventare un simbolo, e proteggerti, oppure ricacciarti quasi anonima nelle braccia della vendetta di stato. E qualcosa su di noi, sul nostro bisogno di sentirci ciclicamente protagonisti di una crociata umanitaria ignorando – o volendo ignorare – che quasi sempre si tratta solo di uno sparo nel buio.
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