giovedì 30 ottobre 2008

• Sul clima,sul pacchetto europeo serve coesione politica e sociale

Condivido completamente quanto su CONQUISTE DEL LAVORO del 28 ottobre 2008 ha scritto Renzo Bellini. Ogni giorno di più, infatti, avvertiamo che quello del clima è un problema di generale sopravvivenza; siamo consapevoli dei limiti degli interventi dell'insieme della classe dirigente politica di ogni livello e ruolo. Ritardi e limiti culturali e progettuali che la spinta all'isolamento ed all'individualismo hanno aggravato, anche in conseguenza della visione vetero-aziendalista nella quale siamo immersi.
«A proposito della discussione in atto tra il Governo italiano e la Commissione europea relativa al pacchetto clima con la conseguente polemica tra maggioranza e opposizione è utile ricordare che la Cisl ha da tempo denunciato i rischi di un nuovo ”debito pubblico verde” che si andava maturando nelle casse dello Stato. Ricordiamo che gli accordi internazionali sottoscritti dal nostro Paese a Kyoto prevedono una riduzione delle emissioni di gas serra in atmosfera del 6,5% rispetto ai valori riscontrati nel 1990. Cosa che non si è verificata; anzi, le nostre emissioni climalteranti sono cresciute del 12-13%. Tutto ciò perché i vari governi o hanno accondisceso acriticamente o hanno ignorato gli impegni sottoscritti senza quindi definire una strategia e un programma adeguato per recuperare i ritardi.
La conseguenza è stata che a livello europeo Francia e Germania hanno sostanzialmente disegnato misure a loro più favorevoli, tant’è che addirittura per la loro industria per il periodo 2004-2007 hanno reso disponibili quote di emissioni superiori al loro fabbisogno per oltre un quarto del necessario, mentre per le quote delle industrie elettriche ed energivore italiane c’è stato un ammanco del 10% circa del fabbisogno ”fisiologico”.
Analizzando alcuni dati forniti dalla Commissione Ue emerge che un cittadino tedesco inquina molto di più di un italiano, presentando un indice di emissioni serra pro-capite calcolato in percentuale rispetto al prodotto interno lordo pari a 10,24 contro l’8,03 del nostro Paese. Inoltre, sempre in base ai dati stimati dalla Commissione Ue, il nostro Paese avrà un costo annuo di ”pulizia” compreso tra lo 0,51-0,66% del Pil nazionale, a fronte di una spesa tedesca annua compresa tra lo 0,49-0,56% del Pil.
Da quanto detto emerge con chiarezza che il disegno della strategia della riduzione delle emissioni a livello europeo è stato disegnato con la completa assenza della posizione dei Governi italiani che non sono stati capaci di fare maggiore chiarezza al fine di tutelare gli interessi nazionali. Proprio per questo risultano incomprensibili le polemiche scoppiate tra maggioranza ed opposizione, quando in realtà sarebbe utile trovare delle posizioni comuni per determinare quella coesione necessaria che ci permetta di uscire vincitori dalle complesse trattative in corso nella sede europea.
Cosa fare dunque? Innanzitutto, si devono confermare gli impegni sottoscritti dei famosi ”tre 20”, cioè realizzare entro il 2020 la riduzione del 20% delle emissioni di Co2, aumentare la produzione di energia rinnovabili del 20%, realizzare l'efficienza energetica e il risparmio energetico per il 20% e infine impiegare il 10% di biocombustibili. Una strada, questa, anche economicamente più vantaggiosa. Infatti, la Commissione europea evidenzia che i danni consequenziali alla salute e all’ambiente causati dall’attuale modello di sviluppo ammontano a circa 350 miliardi di euro l’anno, pari all’8% del Pil europeo. In più, non agire ci costerà 4 euro a persona, mentre mettere in atto delle politiche virtuose in materia ambientale avrà un costo compreso tra i 60 e i 70 centesimi di euro per persona.
Nel confermare gli obiettivi di riduzione, quindi, si deve agire negoziando sul come centrarli, mettendo in campo tutti gli strumenti utili per la realizzazione degli impegni intrapresi. Innanzitutto si tratta di recuperare il ”gap” registrato dall’Italia nella prima fase di attuazione della direttiva. Poi bisogna proporre che il raggiungimento degli obiettivi di riduzione avvenga non con la vendita all’asta, ma proponendo un sistema di benchmarking (parametri settoriali di efficienza calcolati sulle migliori tecnologie disponibili). In questo modo le imprese efficienti non
avranno nessun limite di produzione, contrariamente le altre acquisteranno quote di emissione alimentando un fondo europeo di sostegno all’innovazione, rispettando così il principio ”chi inquina paga”.
Si deve inoltre determinare un sistema più stringente e definito che deve riguardare l’efficienza delle nuove costruzioni edili e la ristrutturazione di quelli esistenti. La normativa avviata dal precedente Governo circa la detraibilità fiscale del 55% delle spese sostenute per l’efficientamento energetico delle abitazioni va consolidato e potenziato su due versanti: ulteriore defiscalizzazione per interventi anche di minore entità come coperture di spazi aperti, terrazzi e solai, crescita e potenziamento delle professionalità e delle capacità imprenditoriali delle imprese del settore. Un piano straordinario dell’efficienza energetica degli stabili dove opera la pubblica amministrazione, compresi i servizi quali scuole e ospedali, con relativa copertura dei tetti con pannelli fotovoltaici per la produzione di energia elettrica da fonte rinnovabile. Si deve investire nelle infrastrutture a partire dalle autostrade del mare con relativa dotazione logistica dei porti e delle aree portuali, mentre un programma decennale deve investire nel potenziamento della rete ferroviaria anche in ambito del trasporto metropolitano recuperando un modello di vita e di organizzazione dei trasporti (a partire da quelli pubblici di tipo ecocompatibile) che contribuisca allo sviluppo sostenibile e alla salvaguardia ambientale. Anche i cosiddetti meccanismi flessibili, cioè la possibilità di contabilizzare sul proprio bilancio ambientale tutti gli interventi che si realizzano con le migliori tecnologie e di energia rinnovabile nei Paesi dell’est o nei Paesi in via di sviluppo, devono trovare un procedimento semplificato e di certa registrazione.
In definitiva all’Italia devono essere riconosciute le stesse condizioni per gli investimenti realizzati nel nord Africa o nei Paesi dell’est, senza vincoli particolari se non la veridicità dei fatti così come accade agli altri Paesi, come ad esempio la Germania che può considerare raggiungibili con più tranquillità gli obbiettivi
ambientali rinnovando con nuovi impianti gli stabilimenti inefficienti e inquinanti dell’ex Germania dell’est. L’ Italia ha tutti i diritti di far parte dell’Europa Verde, della leadership mondiale per la lotta ai cambiamenti climatici, ma affinché questo avvenga abbiamo bisogno di una grande alleanza del sistema Paese per attuare obbiettivi che sono alla portata del Paese stesso.
In ultima analisi occorre un grande Patto, un’alleanza e una forte solidarietà fra tutti i livelli delle istituzioni, una mobilitazione delle persone di scienza e tecnica, una volontà decisa delle imprese di mettere inmostra le proprie migliori tecniche e processi produttivi, il coinvolgimento del mondo culturale e della scuola ai diversi livelli per realizzare una grande operazione di nuova cultura della responsabilità, attraverso un piano nazionale strategico di costruzione di una società organizzata e produttiva a bassa emissione di C02, di cui a livello mondiale siamo già stati leader negli anni ’60. Le sorti di un pianeta più vivibile nell’immediato e per le prossime generazioni meritano questi impegni perché offrono al mondo una idea di sviluppo sostenibile ad alto contenuto di lavoro, di nuove professionalità e di coesione sociale.»

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