martedì 1 novembre 2011

• Lavoro oggi. E domani?



Il grande accumulo del debito nel paesi occidentali si traduce in un carico sui giovani. Abbiamo consumato di più di quanto era lecito ed abusato nell’uso incontrollato di strumenti come quello finanziario, ponendo in sottordine la centralità della persona e della famiglia, scaricando il peso sulle generazione future. 
L’urgenza immediata propone spesso la visione parziale di un fenomeno - sia nel momento del processo che in quello del prodotto. È quello che sempre più spesso accade e le cui conseguenze possono far perdere la necessaria visione d’insieme che permette un vero confronto o - quando necessario - una riprogettazione. Ma processo e prodotto non possono espropriare il ‘primo piano’ al bisogno (o ritenuto tale) al quale si intende far fronte. ‘Primo piano’: espressione che esalta la differenza con la parola ‘centralità’ che può essere attribuita al soggetto da soddisfare oppure allo strumento col quale si intende giungere alla soddisfazione del bisogno.  Nel nostro Paese, in particolare, anche per la strutturazione complessiva del sistema ‘impresa’ (funzionale alla dimensione medio-piccola) fino a tempi recenti si è cercato di mantenere centralità all’uomo e comunque al lavoro che ne sosteneva strategie ed obiettivi - anche parziali. Col progressivo ripensamento delle ideologie europee affermatesi negli ultimi due secoli ed i precipitati produttivo/finanziari che via via avevano indotto nelle varie aree del globo si giungeva allo stadio attuale, alla cosiddetta ideologia di mercato ed alla esaltazione del fattore tempo come momento determinante di ogni scelta e del suo sfruttamento. 
Occorre armonizzare la capacità imprenditoriale con una solidarietà capace di dare risposte al cambiamento ed alle mutate condizioni organizzative dei ruoli all’interno  delle famiglie e delle Comunità di vario livello. Si deve porre attenzione a chi sa usare le risorse; creare impresa e lavoro. Perché "se una scelta apparentemente generosa come quella di distribuire i guadagni tra i lavoratori impedisce la crescita dell'azienda, dell’investimento e dell’occupazione, allora in realtà non è stata una scelta generosa"; non è stata una scelta per diritti, ma la loro negazione.
Attuale contingenza: centralità dello strumento finanziario e riduzione dell’uomo ad osservatore subordinato ed occasionale, ridotto a puro strumento funzionale; il lavoro con la ricerca come momenti da rendere sempre più soggetti ai meccanismi di accumulazione di chi controlla i gruppi che determinano scelte e strutturazioni.
Il nostro Paese ha risentito più di altri di progressivo arretramento perché più di altri aveva cercato risposte in progress alla centralità dell’uomo, alla solidarietà ed alla uguaglianza, alle dinamiche comunitarie ‘positive’. Oggi si trova di fronte alla urgenza di tamponare la discesa che viene imposta dall’interno (col permanente richiamo ad una economia reale fai da te ed esterna a qualsiasi tipo di strategia) e dall’esterno (tentando di non essere travolta dalle degenerazioni strumentali finanziarie, troppo spesso di sola origine speculativa).
Tutto questo ha comportato anche che lo strumento ‘organizzazione del lavoro’ fosse rivisto - il più efficacemente possibile - in funzione dei mutati processi ed obiettivi, anche traguardati al fattore ‘tempo’. L’organizzazione del lavoro e dell’impiego delle professionalità imponeva ed impone una flessibilità ‘ad ogni costo’ che ha provocato, provoca e provocherà alterazioni profonde non solo all’interno delle imprese - piccole e grandi - ma anche nella Comunità a livello di territorio e delle famiglie. Per sostenere questo tipo cambiamento da anni si è favorito l’affermazione di una cultura che destabilizzasse prima di tutto ruoli e legami nelle unità familiari; mantenesse il più possibile  il fermo alla mobilità sociale, avviata negli anni ’50; cercasse strutture istituzionali che riducessero la qualità e la quantità della partecipazione alle decisioni comunitarie (in nome della velocizzazione del sistema gestionale); impoverisse sempre di più la reattività etica di singoli e gruppi ed esaltasse - in qualsiasi modo - l’homo homini lupus desacralizzante. 
Il mondo dei lavoratori e delle lavoratrici ha cercato da sempre di controllare un tal sistema (pur nella consapevolezza che è solo una delle componenti che possono incidere ed affermare strategie). Il sistema contrattuale ha cercato di rimediare alle degenerazioni in atto, pur consapevole dei limiti imposti dalla strutturazione sindacale (che pure ha visto un periodo di ricerca e di formazione qualitativa molto importante col Centro Studi di Fiesole) e di quella istituzionale di partecipazione alla formazione delle decisioni. Ma il sistema contrattuale ha un limite nella possibilità di disporre agilmente del diritto di sciopero e di tale diritto nei fatti è difficile disporre quando si raggiungono tassi di mancanza di lavoro o livelli retributivi a malapena adatti a far fronte alla sopravvivenza personale e, molto meno a quella della famiglia; quando ‘scientificamente’ si procede alla destrutturazione del sistema welfare esistente senza predisporre alternative. Non dimentichiamo mai che flessibilità per non essere equivalente alla precarietà (che è l’atto più distruttivo e suicida di un territorio) deve essere sempre coniugata con un rafforzamento dello welfare.

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